Campo di macerie

Il campo largo è ormai un campo minato. E dentro il Pd si prepara la resa dei conti post-europee

di Simone Alliva   3 maggio 2024

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L'unità del partito democratico resta un miraggio. Schlein è assediata da chi critica le aperture al leader M5S. E mentre Conte piccona i dem, i "vecchi" del partito sono prontissimi a sostituire la segretaria

È mentre il Partito democratico litiga su candidature e simboli che la destra conquista un altro pezzo d’Italia. «Stavolta c’è in gioco la vita o la morte per una Regione come la Basilicata», aveva detto giorni fa Pier Luigi Bersani, durante una conferenza stampa a sostegno del candidato presidente alla Regione, Piero Marrese. “La gente” ha scelto. Votando a destra. Sconfitto il candidato Pd-M5S pescato dopo dieci tentativi di condivisione falliti e sostenuto tra gli altri anche da Alleanza Verdi e Sinistra. Vittoria schiacciante di Vito Bardi di Forza Italia. Tutto nell’indifferenza generale sul futuro della Regione in un voto segnato dal forte astensionismo, con alle urne solo il 49,8% degli aventi diritto. Per l’alleanza demo-grillina un’altra sconfitta, dopo il disastro in Abruzzo dove il centrodestra ha confermato Marco Marsilio, convinto di governare una Regione bagnata da tre mari. Quasi a dimostrazione del fatto che la Sardegna con Alessandra Todde è stato solo un caso e non un modello replicabile ovunque. 

Il campo largo si sgretola sotto i piedi di chi lo ha difeso, costruito, sognato. E lentamente dentro il Partito democratico iniziano a galleggiare fondi di risentimento o di rabbia, di antica impazienza o insofferenza finora sopiti. «Abbiamo commesso errori nella composizione della coalizione. Con il M5S bisogna imporre regole» e «i primi risultati per la coalizione non sono assolutamente positivi»: i due concetti tratti dalle dichiarazioni dell’eurodeputata dem Pina Picierno e dal deputato pentastellato Arnaldo Lomuti, sono le prime analisi che arrivano dalla Regione e fotografano una distanza reale fra il Pd e il M5S. A queste si aggiungono voci di governatori e presidenti dem, come quella di Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio regionale della Toscana e candidato alle Europee nel collegio dell’Italia Centrale. «Unire tutte le forze dell’opposizione alla peggior destra è importante, ma è utile se produce programmi, leader, valori e visione davvero condivisa. Per adesso, usando la metafora calcistica di Boskov, “campo largo è quando Conte fischia”. Non può funzionare così e il Pd non può e non deve essere subalterno agli umori altrui. E infatti in Basilicata, con questa logica, Conte il campo largo lo ha regalato alla destra. Nella vittoria in Sardegna, invece, si è partiti da un ragionamento diverso e più che la larghezza del campo è stata fondamentale la capacità di rispondere ai bisogni concreti e quotidiani dei cittadini sardi, in modo particolare quali più in difficoltà».

Dentro il partito di Elly Schlein proprio la difesa dell’alleanza «per battere questa destra» viene vissuta come un obbligo, come un fastidio, come un inutile inchino a un protocollo di cui disfarsi al più presto. La composizione delle liste per le Europee non è bastata a sopire e ricucire i rapporti ormai logori con la minoranza del partito, nonostante Schlein abbia fatto l’impossibile per soddisfare tutti, proponendo «una squadra forte, competitiva e plurale», come l’ha definita lei stessa. I capilista sono Schlein al Centro e nelle Isole, la figlia del fondatore di Emergency Cecilia Strada al Nord Ovest, Stefano Bonaccini al Nord Est e la giornalista Lucia Annunziata al Sud. Fra i candidati, l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio, l’ex sardina Jasmine Cristallo, i sindaci Giorgio Gori, Dario Nardella, Matteo Ricci e Antonio Decaro, l’ex segretario Nicola Zingaretti, il giornalista Sandro Ruotolo. Lello Topo al Sud, campione di preferenze in quota De Luca, segno di un accordo con il presidente della Campania. Il primo firmatario della legge contro l’omotransfobia, Alessandro Zan, che corre in due circoscrizioni, caso unico assieme alla segretaria, un modo per sopire i malumori per la candidatura dell’ultracattolico Tarquinio. E anche nella maggioranza i malumori montano: «La segretaria si è chiusa in un cerchio di strettissimi consiglieri che l’ha portata a diffidare da scelte radicali e nette, per andare verso ciò che è “complesso”, sfumato, intricato. Un atteggiamento “gesuitico”, diciamo, che ci mette in difficoltà». A questo si aggiungono le violente polemiche interne, unanimi, per la decisione della segretaria di candidarsi al Parlamento di Strasburgo e per l’idea – poi ritirata – di mettere il proprio nome sul simbolo del partito. Il “padre nobile” Romano Prodi ha espresso la sua contrarietà a una candidatura di facciata: nel senso che se Schlein fosse eletta, non andrebbe comunque a Bruxelles, l’accusa, non da poco, è di provocare «una ferita alla democrazia». Sul simbolo è stato il partito in blocco a dirle no: un incrocio di interventi pubblici e silenzi. Diretto è stato Dario Franceschini, gli orlandiani hanno atteso in silenzio e sul piede di guerra così come gli ex Articolo 1, tanto che Bersani ha definito «una scelta saggia» il passo indietro.

Saltano pezzi e riaffiorano trame. A Bari dove Conte ha detto “no” alle primarie per un’inchiesta sulla compravendita di voti che ha portato alle dimissioni di alcuni assessori del Pd, nell’agone del centrosinistra si consumerà una sfida all’ultimo voto tra Vito Leccese candidato del Pd e Michele Laforgia candidato del M5S. Due candidati che spaccano il Pd stesso. Titti De Simone, consigliera del presidente della Regione, Michele Emiliano, ha deciso di dimettersi dal suo ruolo di presidente del Pd di Bari. De Simone, una vita a sinistra da deputata nel Pci e consigliera regionale della Puglia era entrata nel partito proprio spinta dalla segretaria Schlein che ha sostenuto in prima persona alle primarie. Dopo mesi di frizioni all’interno del Pd barese ha deciso di non seguire la linea  nazionale. Sosterrà la candidatura alle Comunali di Bari del candidato grillino. «Una parte ampia della comunità di democratiche e democratici sono certa che sosterrà Michele Laforgia, in coerenza con la domanda di apertura verso i movimenti, le nuove emergenze sociali, economiche e ambientali e quella sinistra diffusa che ancora non vede un cambio di passo da parte del Pd locale». 

Sulle Regionali in Piemonte, il Pd ha portato avanti un tentativo di rianimazione ai limiti dell’accanimento terapeutico ai piedi della Mole. Accanimento inutile: l’accordo dem-grillini non c’è stato, ferma Chiara Appendino che al sindaco di Torino Stefano Lo Russo, durante un incontro privato, avrebbe detto chiaramente: «Abbiamo già perso credibilità governando con voi in un momento storico importante: la pandemia. E ancora prima nel governo con Salvini. Dobbiamo recuperare il nostro elettorato. Sicuramente c’è una destra che avanza ma i nostri elettori chiedono il ritorno a battaglie del Movimento che poco hanno a che fare con i conti che avete con la storia: la Tav, l’Ospedale Molinette, i trasporti. Dobbiamo rientrare in connessione con loro, non con voi». I sondaggi danno una riconferma netta di Alberto Cirio di Forza Italia. La strategia di Appendino è condivisa più di quanto Conte non voglia pubblicamente ammettere nel M5S e sembra incrociare anche quella di un’altra ex sindaca grillina, Virginia Raggi che Casaleggio padre decise di far diventare sindaca di Roma per capriccio: «Ne prendo una e la faccio eleggere». Cinque anni vissuti tra autobus in fiamme e cinghiali nei vicoli. 

Presente al Maxxi per celebrare l’uscita dell’ultimo libro della conduttrice Rai Serena Bortone, Raggi parla fitto con i suoi, poco più in là presente anche l’attuale sindaco di Roma Roberto Gualtieri che pur continuando a conversare amabile con il presidente della Fondazione Alessandro Giuli, getta occhiate in tralice al capannello formatosi vicino all’uscita del ristorante del Museo: «La strada con il Pd è impossibile. Ci aspettavamo un cambio di passo con Elly ma così non è andata», dice Raggi granitica. Ma per il cerchio ristretto della segretaria del Pd non c’è alternativa: «Il campo largo è il destino del 2027», ripetono: «Un campo progressista, civile, contro le destre. Dobbiamo spingere il M5S: si può costituzionalizzare, far entrare nell’ambito costituzionale dei partiti. E poi con questa legge elettorale non ci sono altre opzioni». 

Il problema è che nessuno si fida più di nessuno, su un campo in cui ciascuno vanta una caratura di “purezza” superiore a quella del vicino di pianerottolo. «Con quale Conte abbiamo a che fare?», è la domanda che corre tra i dirigenti dem. Quello soddisfatto che ha presentato gli orrendi “decreti sicurezza” accanto a Matteo Salvini o lo stesso che lo ha criticato al ritorno del Papeete Beach quando ha chiesto “poteri assoluti”? Il «riferimento dei progressisti italiani» (copyright di Zingaretti) o il pupillo di Trump? Quello dell’abbraccio a Schlein o quello delle bordate al Partito? Che serve chiarezza lo dice anche Brando Benifei, capogruppo Pd uscente al Parlamento europeo in campo per il collegio del Nord-Ovest: «Diciamo che i risultati delle liste del Pd dimostrano che l’atteggiamento unitario verso le forze alleate paga in termini di consenso. Continuare con le liti da cortile mentre la destra italiana lentamente colpisce tutti i nostri contrappesi democratici; pensiamo al premierato o alla censura alla stampa, non serve. Inutile la polemica a tratti vittimistici di Conte e Calenda. Non c’è alternativa a un fronte unito ma è chiaro che un risultato netto e forte del Pd sia la precondizione affinché ci sia questo campo». Alle porte due elezioni regionali, più di tremila Comuni, sei capoluoghi al voto dentro e naturalmente le Europee: termometro per la tenuta del partito. La segretaria è consapevole che qualsiasi risultato sarà bersagliato da critiche e analisi feroci: la soglia psicologica è quella del 22,7% del 2019. Intanto i vecchi del partito sono prontissimi, sempre in forma postuma, puntano le loro carte altrove: su Matteo Ricci sindaco di Pesaro punta la squadra Bettini-Morassut. Franceschini sta già lavorando sul profilo di Dario Nardella prossimo segretario. E poi torna l’ombra di Paolo Gentiloni che non si ricandida a Bruxelles, ma si dice pronto a un ruolo da federatore del centrosinistra.