Speciale
Le pagelle del potere: Sergio Mattarella da 10, Giuseppe Conte meglio di Elly Schlein
Abbiamo selezionato dodici personaggi che rappresentano, nelle sue varie forme, il potere in Italia. Politico, economico, religioso e mediatico. Ecco chi ha fatto meglio e chi peggio nell'ultimo anno
Non è facile definire il potere in Italia. Il potere in Italia non ha un valore assoluto e universale. È un surrogato di potere. È abbastanza relativo. Varia col variare dei posizionamenti tattici (e ingenui) che di volta in volta assumono i governi. Nei giorni di propaganda politica per le elezioni europee verrà spergiurato il contrario, ma è banale, pleonastico, stucchevole affermare che l’Italia conta nel Mondo se conta in Europa. Per una serie di ragioni che stare qui a spiegare, avendo bene o male tutti completato gli studi delle prime classi elementari, è altrettanto banale, pleonastico, stucchevole.
I governi lungimiranti sanno sfruttare la collocazione geopolitica nel Mondo che l’Italia ha abbracciato, in maniera irreversibile, da un’ottantina di anni. I governi stolidi sbraitano inutilmente contro gli Stati Uniti, l’Alleanza Atlantica, l’Unione europea e infine scontano inesorabilmente il rinculo. La coerenza geopolitica è una precondizione inderogabile, non sufficiente, per un buon governo. Giorgia Meloni l’ha intuito subito, poi ha cominciato a vacillare. È sciocco pensare che l’Italia possa farsi «sentire» in Europa con piglio autoritario, è più efficace farsi «percepire» con autorevolezza. Come accaduto (in parte) con Mario Draghi a Palazzo Chigi.
Il potere politico è un potere acciaccato non poggiandosi più su partiti solidi, è un potere che soccombe, per esempio, col potere economico-finanziario, anch’esso parecchio debilitato. I partiti seguono le tendenze e subiscono i destini individuali. Che sia il Draghi salvatore o la Meloni vendicatrice. Situazionismo.
La politica ciarliera, che intasa i media, intrattiene dai fatti veri. Le nomine, le spartizioni, le camarille, le svendite, le speculazioni. Il potere tipicamente italiano l’ha descritto magistralmente Ferruccio de Bortoli nel suo libro Poteri forti (o quasi): «Il Paese ha avuto solo raramente poteri forti. Ha certamente avuto, e continua ad avere, sempre poteri opachi, non raramente forieri di corruzione, quando non confinanti con la criminalità. Cordate personali, piccole consorterie, corporazioni ottuse, egoismi locali e miopie collettive. Sciami di manager attenti al proprio personale tornaconto nel breve periodo – a volte in combutta con consulenti e cacciatori di teste – abili nel saltare da un incarico all’altro e del tutto disinteressati al futuro delle aziende e tantomeno dei loro dipendenti. Un Paese con poteri forti e responsabili, bilanciati da regole certe e con la necessaria trasparenza garantita da una informazione libera, non è esposto ai raider di qualunque natura. Fu anche grazie a Enrico Cuccia e Ugo La Malfa se la parabola di Michele Sindona venne fermata. Un Paese con poteri forti e responsabili non si assoggetta facilmente alla discrezionalità delle burocrazie europee. Non si sdraia davanti all’imperialismo delle banche d’affari americane. Non si accontenta di uno strapuntino agli incontri del Bilderberg e della Trilateral. Con la scomparsa dei partiti, di cui una democrazia ha bisogno, ci siamo esposti fatalmente ad altri tipi di raider».
In questa disfunzione di sistema, per le pagelle de L’Espresso, un modo leggero per congedare l’anno vecchio e accogliere l’anno nuovo, il Quirinale di Sergio Mattarella è il potere sano. E necessario. Oltre Mattarella non c’è molto di coinvolgente. L’Espresso ha selezionato 12 personaggi, apostoli del potere, per lo spazio che occupano e i temi che rappresentano. È la sineddoche del potere, l’estratto con poco succo. Quello che c’è, è amaro assai.
L’Espresso ha selezionato dodici personaggi per lo spazio che occupano e i temi che rappresentano. Perché tutto varia con il mutare dei posizionamenti dei governi.
Sergio Mattarella, l'argine ai populismi
Non perdiamoci in parafrasi: Sergio Mattarella è fra i migliori presidenti della Repubblica. Forse il migliore. Il motivo è semplice, non semplicistico: è il custode e il garante della Costituzione, il riferimento di ogni sua scelta da quasi nove anni. Mattarella ha saputo interpretare, assieme ai suoi collaboratori (fra gli altri, il segretario generale Zampetti, il consigliere Astori), le veloci trasformazioni politiche e soprattutto ha saputo incanalare i populismi di questo tempo. In un periodo di poteri deboli e intermittenti, il Quirinale è un potere sano. Necessario.
Voto: 10
Giorgia Meloni, la leader che soffre
Giorgia Meloni è una presidente del Consiglio che soffre. Per una volta ci si permette di far prevalere un aspetto emotivo, non per ridurre l’analisi politica. Meloni soffre i sondaggi, i giornalisti, gli alleati, gli oppositori, le forze limpide, le forze oscure, il caso Giambruno, la sorella, il cognato, Fazzolari, Crosetto, Mantovano, le armi a Kiev, i migranti in Albania, i comici russi, il Piano Mattei. Meloni non appare in grado di sopportare tutto ciò. Più tenta di essere dura, più si conferma molle. A questo governo, che avanza a spallate, manca l’Italia. È rimasto il parentado.
Voto:5,5
Matteo Salvini, dieci anni di logorio
Matteo Salvini ha festeggiato di recente dieci anni da segretario della Lega. Al debutto c’era un parlamentare di Russia Unita, il partito di Putin. Quando si dice “forgiato”. È molto probabile che si fermi a dieci. Le elezioni europee possono essere fatali. Il ministro dei Trasporti ha giocherellato col ponte sullo Stretto e l’Autonomia differenziata. Non ha una strategia, ma un tormento: deve tenere il Carroccio sopra il dieci per cento. Ormai nel partito aspettano le urne per trovarci dentro il coraggio – non è un partito di coraggiosi – e cambiare finalmente segretario.
Voto: 4
Elly Schlein, In mezzo al guado
La segretaria Elly Schlein è riuscita a portare il Partito Democratico fuori dalla esiziale Ztl, la zona a traffico limitato, etichetta perniciosa di un movimento politico spesso estraneo alle masse e anche alla realtà. Al momento, però, il Partito Democratico lo si rintraccia nelle aree pedonali. Sempre più distante dalla sua matrice di sinistra, sempre più imbrigliato in un’epoca infinita di “post materialismo”. Schlein è molto attenta ai diritti civili, ma per difenderli bisogna governare e per governare bisogna soddisfare tutti i diritti. Anche quelli materiali.
Voto: 5,5
Giuseppe Conte, l’oppositore riluttante
Il politico Giuseppe Conte è stato sottovalutato. Il Movimento Cinque Stelle era il partito (termine sdogato) del guru Gianroberto Casaleggio e del comico Beppe Grillo, adesso è il partito di Giuseppe Conte. Questo è sufficiente per dominare il partito, non per tornare al governo o “federare” il centrosinistra. Conte e Schlein hanno il dovere, non l’opportunità, di costruire una alternativa credibile alle destre. E Conte deve imparare che l’opposizione va fatta al governo per coscienza, non ai democratici per convenienza. Per non replicare il modello Italia dei Valori.
Voto: 6
Alfredo Mantovano, Il guru delle nomine
Era l’unico nel governo che sapeva come usare le chiavi di Palazzo Chigi, l’unico con un robusto passato nelle istituzioni. Il sottosegretario Alfredo Mantovano maneggia con perizia le sue relazioni (laiche e non laiche) e le sue deleghe (quella ai servizi segreti). Fa valere il suo potere. Lo impone per le nomine di Stato. Lo stile ieratico non lo rende gradito a molti esponenti del governo. Ai leghisti in special modo. Questo gli importa poco. È riuscito a conquistarsi la fiducia di Giorgia Meloni. Deve preservare intatta quella istituzionale.
Voto: 6,5
Alberto Nagel, Mediobanca che conta
Per ingollarsi un sorso di potere, fra tanta arsura e troppi mediocri altrove, si deve tornare a piazzetta Cuccia. A Mediobanca. Ancora una volta Alberto Nagel è stato confermato amministratore delegato e dunque ha rifilato la sua linea ai due “azionisti riottosi”, Delfin degli eredi Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone. Nagel ha annunciato che il piano 23/26 prevede di raggiungere 3,8 miliardi di euro di ricavi e di distribuire ai soci 3,7 miliardi in totale. Lo scettro è sempre la quota di Mediobanca in Generali, prima della fila davanti a Del Vecchio, Caltagirone, Benetton.
Voto: 7
Pietro Labriola, Lui vince, il Paese forse
La rete telefonica di Tim venduta al fondo americano Kkr è un successo di Pietro Labriola, capace di stringere le giuste alleanze nel governo e neutralizzare i francesi di Vivendi. Con il tempo capiremo se è un successo anche per l’infrastruttura telefonica in Italia, per lo Stato che ha stanziato 2,5 miliardi di euro, per ridurre il divario digitale, per i 50.392 dipendenti del gruppo telefonico, per il mercato interno in generale. Ogni perplessità è lecita (il fondo Kkr fa un affare), ogni rivendicazione è corretta (il debito di Tim verrà tagliato), ma oggi a vincere è Labriola. Se pure l’Italia, lo diremo poi.
Voto: 6
Marina Berlusconi, la dynasty non dilapida
I figli di Silvio Berlusconi fin qui non hanno litigato per il testamento. Questa è una notizia per l’Italia delle dinastie rissose e voraci nel dilapidare i patrimoni di famiglia. Almeno in pubblico, Barbara, Eleonora e il più giovane Luigi hanno riconosciuto a Marina e Pier Silvio il ruolo di guida del gruppo Fininvest. Marina e Pier Silvio non hanno accettato mai la soluzione più comoda: cedere il controllo delle aziende e godersi i dividendi e le fortune accumulate. Mediaset è il tribunale supremo: avranno ragione se la svecchiano e ne fanno davvero un gruppo europeo.
Voto: 6,5
Angelo Becciu, la Chiesa delle incognite
Quest’anno per il Vaticano si è chiuso con la condanna per gravi reati al cardinale Angelo Becciu, l’ex numero tre. Il prossimo anno si chiuderà con l’apertura della Porta Santa e l’inizio del Giubileo. È un momento fondamentale, e non replicabile, per papa Francesco, sempre più stanco e poco incline ai compromessi. È indubbio l’ultimo tentativo di Jorge Mario Bergoglio di ripulire la Chiesa da melmose incrostazioni e codine resistenze. Il rischio è quello di lasciare una Chiesa isolata e divisa. L’auspicio è quella di lasciarla a don Matteo. Il cardinale Zuppi.
Voto: 5
Roberto Mancini, l’oro di Riyad
Si potrebbe scrivere un manuale su come passare dagli altari alla polvere e intitolarlo all’ex commissario tecnico azzurro Roberto “Mancio” Mancini. Non è mai saggio farsi beffe della sorte che ti ha ammantato di genio e regolatezza durante i campionati Europei in Inghilterra. C’era del mistico in quel trionfo con la pandemia e Gianluca Vialli, i rigori parati, le sgroppate di Spinazzola, la pasta asciutta. C’è mestizia nel cedersi «totus tuus» ai petrodollari di bin Salman e soprattutto nell’arroganza di pensare di farci tutti fessi. Questo no.
Voto: 4
Chiara Ferragni, per chi ci ha creduto
Ci scusiamo con i lettori: questo non è un voto a Chiara Ferragni e al marito Federico Lucia detto Fedez. I fenomeni del momento sono già roba di ieri. Il voto de L’Espresso, ben sotto la sufficienza, ai coniugi influencer è rinvenibile negli archivi del nostro settimanale con un’inchiesta di qualche anno fa dal titolo «I segreti dell’impero Ferragnez», nel mentre erano coccolati da giornali, intellettuali, scalatori di popolarità, passanti a vario titolo. Questo è il voto ai creduloni che si fanno abbindolare da artisti senza arte, pandori senza lievito, denaro senza ricchezze.
Voto: 4