Ai fatti del giorno il governo risponde con decreti che aumentano i delitti o le pene. Ma la deriva securitaria complica il nostro sistema giuridico. E questo fenomeno, chiamato panpenalismo, disperde ogni effetto deterrente

C’è un rave party in un casale abbandonato? Il governo risponde con il decreto anti-rave, che innalza le pene detentive fino a sei anni e le multe da 1.000 a 10 mila euro. Un barcone pieno di persone affonda tragicamente a pochi metri dalla costa in Calabria? L’esecutivo risponde con il decreto Cutro, inasprendo le pene per il reato di immigrazione clandestina e aggiungendo quello di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», punito con la reclusione da venti a trent’anni. Due minorenni vengono violentate da un gruppo di adolescenti del Parco Verde di Caivano? Arriva il decreto Caivano che, per reprimere la criminalità giovanile e l’abbandono scolastico, inasprisce ulteriormente le sanzioni nei casi di spaccio e prevede fino a due anni di carcere per i genitori che non mandano a scuola i figli, con multe da 200 a mille euro per mancata sorveglianza di un minore colpevole di un reato. Dei ragazzi youtuber si schiantano con una supercar addosso a una macchina, uccidendo un bambino al suo interno? Il governo risponde con la riforma del Codice della strada. Aumenta le sanzioni per chi guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ma anche per chi supera i limiti di velocità nei centri abitati.

 

E sull’onda dell’indignazione per i cinque operai morti nel cantiere Esselunga di Firenze, la ministra del Lavoro, Marina Calderone, annuncia un nuovo pacchetto di norme per la sicurezza sul lavoro, contro il sommerso e il caporalato e per la trasparenza degli appalti. Da ottobre sarà introdotta una patente a punti nei cantieri con 30 crediti iniziali, che, scendendo a meno di 15 a seguito di inadempienze accertate dall’ispettorato del lavoro, comporteranno una sanzione da 6 a 12 mila euro. Un concentrato di promesse al grido di «più ispettori, più controlli, più sanzioni» che si scontra però con una realtà diversa. In un 2024 che solo nei primi due mesi conta già 119 denunce di incidenti mortali sul lavoro – il 20% in più rispetto allo stesso periodo del 2023, anno in cui l’Inail ha ricevuto complessivamente 1.041 segnalazioni di morti bianche – e mentre nel bacino di Suviana i sommozzatori recuperavano i lavoratori uccisi dall’esplosione nella centrale idroelettrica.

 

È un continuo botta e risposta, una corrispondenza biunivoca perfetta tra una tragedia e un decreto (che puntualmente prende il nome della tragedia) nella quale un’iniezione di pene, multe e sanzioni inasprite cerca di convincere l’opinione pubblica che si sta realmente facendo qualcosa. Il nome tecnico è panpenalismo, conosciuto anche come populismo penale, ossia la tendenza ad aumentare le fattispecie delittuose o la quantificazione delle pene attraverso la legislazione d’emergenza. Un modo di fare che finisce per schiantarsi sul già intricato sistema giuridico italiano con nuovi commi e tecnicismi contorti, spesso, per la fretta di intervenire, per nulla coerenti con le norme esistenti. Il risultato? Un mostro che non fa paura a nessuno, anzi.

 

Il massimo potere punitivo finisce per assuefare rapidamente le persone e dunque non sortisce alcun effetto deterrente. Tanto più che il sistema penale italiano, proprio per l’incoerenza delle nuove norme, permette spesso una scappatoia.

 

Lo youtuber della vicenda di Casal Palocco ha potuto patteggiare una condanna a quattro anni e quattro mesi, con la detrazione del periodo passato agli arresti domiciliari che fa scendere la pena al di sotto dei quattro anni e permette l’accesso per il condannato alle misure alternative alla detenzione, come ad esempio l’affidamento in prova ai servizi sociali, con il fine di rieducare il condannato. Patteggiamento a un anno e quattro mesi con pena sospesa, come solitamente avviene quando la condanna non supera i due anni di reclusione, anche per la venticinquenne che nel Capodanno del 2023 finì fuori strada nel Veronese, causando la morte dell’amica seduta sul sedile anteriore. Scelte corrette dal punto di vista della legge che, però, rinfocolano l’indignazione dell’opinione pubblica e la richiesta di severità. Alimentando un circolo vizioso. Insomma, gli annunci funzionano per un titolo di giornale, ma l’indomani sono già superati.

 

E a volte il panpenalismo conduce il legislatore a inventare il reato di sana pianta, col rischio (non calcolato) che non venga mai applicato, proprio perché la sua vaghezza può portare il giudice ad applicare una norma diversa, già esistente, più chiara e incentrata su analoga fattispecie. È il caso dell’articolo 415 bis del Codice penale previsto dal disegno di legge in materia di sicurezza, approvato lo scorso novembre dal Consiglio dei ministri, per introdurre il reato di «rivolta in istituto penitenziario». Una fattispecie che potrebbe benissimo essere coperta da reati come danneggiamento, lesioni o evasione. Ma il 415 bis anticiperebbe la soglia punitiva così da poter essere applicato, nelle intenzioni, anche a condotte non realmente offensive, come la resistenza passiva dei detenuti all’esecuzione di ordini. Non riordinare la camera o rinunciare alla doccia potrebbero essere atti sanzionati come una rivolta, che, nell’immaginario e anche nella realtà, è una sommossa violenta. Nello scenario prefigurato dall’applicazione della norma in discussione si potrebbe arrivare a trattare l’insubordinazione non più come un illecito disciplinare, ma come reato punito con la reclusione da uno a cinque anni e, per gli organizzatori, fino a otto anni. Perché si scrive panpenalismo, ma si legge ossessione securitaria.