Generosa anche con chi vorrebbe spazzarla via, l’Unione finanzia gruppi e fondazioni e aumenta i dipendenti. E a crescere è anche il costo totale, arrivato a 2 miliardi e 355 milioni di euro su tre sedi

«Più Italia, meno Europa», dice lo slogan leghista per le elezioni europee. Ma non «meno soldi». Quelle due paroline non figurano in nessun programma per il voto della prossima settimana, che poi di programmi ce ne sono davvero pochi. I soldi, invece, non mancano. Ce ne sono anzi sempre di più. Perché l’Europa è generosa con tutti, anche con i propri nemici. Per dirne una, fino al 2017 aveva accesso ai suoi finanziamenti anche l’Alleanza per la Pace e la Libertà, di stampo apertamente neofascista, presieduta dal capo di Forza Nuova Roberto Fiore.

 

Il Parlamento europeo ha stanziato per il 2024 la bellezza di 141 milioni e 500 mila euro per i partiti, compreso il finanziamento ai gruppi parlamentari. È il 6 per cento del suo bilancio. Una cifra che per giunta cresce anno dopo anno come la panna montata. Nel 2023 i milioni erano 135: perciò quest’anno i contributi del Parlamento europeo alle forze politiche aumenteranno di un altro 5 per cento circa. Ah, l’inflazione… Peccato che in soli dieci anni i soldi pubblici per la politica europea siano lievitati del 40 per cento: da meno di 101 a 141,5 milioni.

 

Matteo Salvini con altri leader di estrema destra europei (tra loro, Geert Wilders e Marine Le Pen) durante una manifestazione in vista delle Europee 2019 a Milano

 

A chi vanno tutte queste risorse? La fetta più grossa ai gruppi parlamentari. Sono 67 milioni e mezzo, che divisi per i 720 eurodeputati fanno 93.750 euro a cranio. Addirittura più della cifra pro capite riconosciuta dal munifico Parlamento italiano ai suoi membri: 87.586 euro, calcolando anche i senatori a vita. Un bel bottino, per chi alle scorse elezioni europee ha fatto boom come la Lega di Matteo Salvini. I 29 seggi conquistati nel maggio 2019 valgono poco meno di tre milioni.

 

È un mucchio di quattrini, che si aggiunge al finanziamento dei partiti europei, ciascuno dei quali è un raggruppamento di partiti nazionali. Dove di regola comanda il più forte. Un caso? Il Partito dei conservatori e riformisti europei, il cui acronimo è Ecr. Vi aderiscono le sigle della destra estrema e reazionaria, come la spagnola Vox e la polacca Diritto e giustizia, formazione politica che si è distinta per le iniziative contro l’indipendenza della magistratura e i diritti civili. La presidente è Giorgia Meloni e ha due vice: l’eurodeputato Jorge Buxadé di Vox e il parlamentare polacco Radoslaw Fogiel. Nel consiglio di amministrazione ci sono altri due esponenti di Fratelli d’Italia. Il primo, Carlo Fidanza, eurodeputato e capo della delegazione meloniana a Strasburgo, ha patteggiato una condanna a un anno e quattro mesi per corruzione: avrebbe persuaso un consigliere comunale di Brescia a dimettersi per lasciare il posto a un suo protetto in cambio dell’assunzione del di lui figlio come proprio assistente all’Europarlamento. Una vicenda imbarazzante, che tuttavia non ha incredibilmente precluso a Fidanza una nuova candidatura.

 

Il secondo si chiama Nicola Procaccini, missino in gioventù, poi dirigente di Azione giovani e portavoce di Giorgia Meloni ministra della Gioventù nell’ultimo disastroso governo di Silvio Berlusconi, quindi sindaco di Terracina e infine eurodeputato. È figlio della ex parlamentare di Forza Italia Maria Burani. Meloniano, ça va sans dire, a trazione integrale.

 

Carlo Fidanza

 

Ma Fratelli d’Italia ha in mano direttamente anche la gestione del partito Ecr. Il segretario generale è infatti il deputato Antonio Giordano, eletto alla Camera nel settembre 2022 e distintosi come autore della relazione con cui il partito di Giorgia Meloni ha bocciato in commissione a luglio del 2023 la direttiva europea sulla lotta alla corruzione. L’incarico gli affida di conseguenza anche i cordoni di una borsa discretamente rigonfia. Per il 2024 Ecr avrebbe diritto fino a 4 milioni e 436 mila euro.  

 

E non è tutto. Oltre a finanziare i partiti, il Parlamento europeo versa contributi anche alle fondazioni che fanno capo a questi. Nel 2024 hanno a disposizione altri 24 milioni che si aggiungono ai 50 stanziati per i partiti: 5 in più rispetto al 2023. La fondazione Nuova direzione, emanazione del partito europeo presieduto da Giorgia Meloni, che annovera fra i suoi vicepresidenti il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto, avrà 2,2 milioni.

 

Una somma simile a quella cui ha diritto la fondazione Identità e democrazia, del partito che porta il medesimo nome ed è espressione delle forze politiche ancora più radicalmente contrarie all’attuale assetto europeo di quelle che aderiscono a Ecr. Ne fa parte il Rassemblement national di Marine Le Pen. C’è poi (ancora) Alternative für Deutschland, partito nel quale affiorano talvolta venature neonaziste. C’è il Partito della libertà di Geert Wilders, leader olandese nazionalista anti-islamico e contrario all’immigrazione. E c’è la Lega. Anzi, le Leghe. Perché ce ne sono addirittura due, ospitate in quel superpartito sovranista europeo: la Lega Nord e la Lega per Salvini premier. Rappresentate nell’ufficio di presidenza da Angelo Ciocca, autore di uno degli spot elettorali più esilaranti. Le sue elementari parole d’ordine: «No guerra, No Islam, No auto elettriche, No insetti, No case green, No Ursula von der Leyen».

 

Quest’anno a Identità e democrazia spettano 4,3 milioni. Cifra ancora lontana da quella che tocca al Partito popolare europeo (13,6 milioni più 6,5 alla fondazione) o al Partito socialista (10,7 più 5,2 alla fondazione). Ma, siccome i contributi sono in proporzione al peso della rappresentanza, non è detto che qualcosa non possa cambiare.

 

Invece difficilmente, a meno di fatti sconvolgenti, cambierà qualcosa nel bilancio dell’Europarlamento. Il fatto è che assorbe sempre più persone e risorse. Né s’intravede un segnale che indichi una direzione diversa. In una certa misura è inevitabile, se i poteri e le competenze continueranno ad aumentare. Ma i numeri lasciano oggettivamente senza fiato. Nel 1958, quando l’embrione dell’attuale Parlamento europeo ha preso vita, il suo costo era rapportabile a 9 milioni di euro attuali. Oggi siamo arrivati a 2 miliardi e 355 milioni. Almeno cento milioni più del 2023 e ben 356 oltre lo stanziamento del 2019, anno del precedente rinnovo dell’Europarlamento. La crescita in una sola legislatura è stata del 15 per cento. Facendo lievitare il costo di ciascun seggio a 3 milioni 270 mila euro: tre volte, in termini reali, ciò che si spendeva nel 1979, al tempo della prima elezione a suffragio universale. Ma allora l’assemblea di Strasburgo aveva poterti puramente simbolici e i Paesi rappresentati non erano 27 bensì 9 (diventeranno 10 nel 1981 con la Grecia). I dipendenti erano 1.995, dei quali 158 temporanei. Nel 1994, alla vigilia dell’allargamento ai Paesi dell’Est si arrivò a 3.790, con 541 precari. Per sfiorare oggi quota 7 mila: esattamente 6.923, dei quali 1.372 addetti agli apparati politici.

 

Pensate a quanti interpreti servono. E quanto costano: 53 milioni e mezzo. Altri 50 milioni o poco meno si spendono per gli agenti di sicurezza. Per non parlare dei tirocinanti e degli esperti esterni: ancora 13 milioni. O degli autisti: 8,8 milioni. La spesa per il personale, di conseguenza, è mostruosa. Per i dipendenti fissi e il personale temporaneo ci sono a disposizione 838 milioni, che corrispondono a una paga lorda media di 121 mila euro l’anno. Da leccarsi i baffi. Anche se la cifra impallidisce al cospetto dello stipendio medio dei dipendenti del Senato italiano, ormai oltre i 200 mila euro annui.

 

Nicola Procaccini

 

È vero che qualche somma, e neppure piccola, si potrebbe risparmiare affrontando con la necessaria determinazione alcune anacronistiche diseconomie. La più assurda riguarda le tre diverse sedi del Parlamento europeo, che non sono neppure dietro l’angolo. L’assemblea è a Strasburgo, la città più orientale della Francia a ridosso della Germania. Ma le commissioni, dove si svolge gran parte del lavoro, fanno base a Bruxelles, in Belgio, distante più di 400 chilometri. Mentre il segretariato generale, vale a dire l’apparato che sovrintende all’intera struttura tecnica e amministrativa del Parlamento europeo, ha sede in Lussemburgo. Cioè a 200 chilometri da Bruxelles e a 260 da Strasburgo. Una follia.