Riforme
L’autonomia differenziata spacca l'Italia e manda il Sud alla deriva
Con la legge Calderoli tutto il potere passa alle Regioni: quelle ricche investiranno, le altre avranno ancora meno risorse. Sindacati, opposizione e parte dell’esecutivo si mobilitano. Per abolire la norma con un referendum
La tempesta perfetta fa rotta verso Sud. Non bastavano lo spopolamento demografico, la fine del reddito di cittadinanza, la fuga dei cervelli, l’impero delle mafie, in fuga pure loro verso economie più grasse. Dopo la liquidazione del superbonus e, fra poco più di due anni, la scadenza del Pnrr che sostengono il pil delle regioni meridionali, arriva l’autonomia differenziata. A ventitré anni dalla regionalizzazione avviata dal governo D’Alema (2001), ventitré nuove materie legislative passano dal governo centrale alla periferia con la firma del presidente Sergio Mattarella che ha verificato l’insussistenza di presupposti incostituzionali nel decreto intestato al leghista Roberto Calderoli.
Nell’elenco votato dalle camere c’è quasi tutto quello che conta nel governo della nazione: istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, infrastrutture, energia, sport, beni culturali e ambiente. Anche la sanità, che era già stata devoluta alle regioni con momenti di grave tensione fra centro e periferia durante il Covid, sarà ulteriormente delocalizzata dopo avere fornito lo strumento con il quale l’autonomia differenziata sarà applicata. Sono i Lep, livelli essenziali di prestazione. È una sorta di minimo comun denominatore che andrà finanziato, se si troveranno i soldi. Se invece non si troveranno, e i legislatori si sono riservati di trovare una soluzione nei prossimi due anni, i Lep rimarranno lettera morta.
«Le criticità principali del decreto sono due», dice all’Espresso Luca Bianchi, direttore generale del centro studi Svimez, nato nel 1946. «La prima è il tentativo di fare dei Lep, che sono la base costituzionale della norma, una questione burocratica interna senza possibilità di finanziamento. L’altra criticità è la confusione derivante dalla doppia tempistica dell’autonomia. La norma stabilisce che, in attesa dei Lep, si possono fin da ora delegare alle regioni le materie non Lep. Non sono materie di poco conto perché includono, per esempio, l’energia, le infrastrutture, le professioni, il commercio estero. Anche all’interno di una materia Lep, come l’istruzione, ci sono aspetti non Lep. Il personale scolastico è delegabile da subito e ricordo la vecchia proposta del Veneto di spostare gli insegnanti nei ruoli regionali con impatti sull’intero sistema e, di fatto, con l’introduzione delle gabbie salariali. In generale, mi sembra una norma che aumenta il divario Nord-Sud svantaggiando il Sud senza davvero avvantaggiare il Nord. È una tassa di tipo ideologico che aumenterà le tensioni fra regioni speciali e a statuto ordinario. Soprattutto, il decreto indebolisce la capacità di organizzare una strategia politica nazionale».
A monte dell’imprimatur da parte del Quirinale il 26 giugno, la riforma ha acceso parecchio gli animi dei parlamentari. Resta negli annali di Montecitorio la rissa del 13 giugno che ha portato alla sospensione del salviniano Igor Iezzi per quindici giorni e di altri dieci colleghi di vari partiti.
I modi inurbani segnalano quanto gli schieramenti si siano semplificati rispetto a un passato non troppo remoto. Le opposizioni parlamentari avversano la riforma. Idem per due dei tre sindacati confederali (Cgil e Uil), mentre la Cisl ha espresso una posizione attendista sottolineando la centralità dei Lep.
Nel centrodestra i toni sono entusiastici. «Il 26 giugno è sicuramente una data storica nella quale il presidente Mattarella ha promulgato la legge dell'Autonomia», ha dichiarato il presidente della giunta veneta Luca Zaia. «Adesso attenderemo la pubblicazione in gazzetta ufficiale per poi chiedere di ripartire con le trattative rispetto alle materie previste dalla costituzione».
In realtà, con la firma di Mattarella si compie un disegno che ha molti padri, genetici o putativi, e un certo numero di pentiti ideologici andati a doppio senso di marcia nel ventennio necessario al compimento della secessione dei ricchi, come la chiamano gli oppositori. Giorgia Meloni fino a dieci anni fa voleva abolire le regioni. Invece la Lega, nelle sue varie metamorfosi da Gianfranco Miglio a Matteo Salvini, ha perseguito l’autonomia differenziata senza ripensamenti riuscendo a ottenere consensi anche in un Mezzogiorno in piena sindrome di Stoccolma. Fra i sostenitori a sinistra la regionalizzazione ha annoverato i presidenti regionali Eugenio Giani della Toscana e Stefano Bonaccini dell’Emilia-Romagna. Bonaccini non si è unito al referendum consultivo tenuto il 22 ottobre 2017 nel lombardo-veneto dei leghisti Roberto Maroni e Luca Zaia, vincitori con oltre il 96 per cento grazie a un appoggio politico bipartisan, soltanto perché aveva preferito accordarsi direttamente con il premier del centrosinistra Paolo Gentiloni per un percorso condiviso. Adesso è fra quelli che chiedono la raccolta di firme per un referendum abrogativo del decreto Calderoli.
«Il mio progetto era un’autonomia differenziata molto diversa da quella di Veneto e Lombardia», ha dichiarato Bonaccini sulla via di Strasburgo dove è stato eletto alle ultime Europee. «Si riferiva a poche materie, non chiedeva un solo euro in più e voleva due cose: sburocratizzazione e programmabilità, certezza delle risorse e degli investimenti. Questa autonomia è un bluff clamoroso oltre che un errore che renderà più debole, più ingiusta e più spaccata l’Italia. Peraltro si vede già qualche crepa nella maggioranza».
Il riferimento è al presidente della Calabria, il forzista Roberto Occhiuto, che non ha sciolto la riserva sull’impugnazione della nuova normativa richiesta da un gruppo di oltre settanta sindaci calabresi sui 404 comuni della regione. Occhiuto, che aveva votato a favore del progetto nella conferenza Stato-Regioni, ha annunciato di volere sottoporre il decreto al vaglio del consiglio regionale ma ripete, con riferimento alla questione dei Lep: «No money, no party».
L’altro forzista Vito Bardi, da poco riconfermato alla guida della Basilicata, si è schierato con il governo di Roma mentre Campania e Puglia, le regioni più popolate del Sud a parte la Sicilia che è regione autonoma dal 1947-48, hanno seguito l’orientamento del centrosinistra nazionale con i presidenti Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, entrambi del Pd.
I sostenitori dell’autonomia differenziata possono valersi di un dato del pil 2023 che vede il Mezzogiorno crescere sopra la media nazionale con un +1,3 per cento. Ma questo risultato è pompato da un +4,6 per cento nel settore delle costruzioni, dunque dal superbonus, e da un +3,3 per cento dei servizi finanziari, immobiliari e professionali. L’industria cala dello 0,5 per cento. L’agricoltura sprofonda del 3,2 per cento.
I dati forniti dal Mef sulle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2023 e riferite all’anno fiscale precedente, rielaborati da Intwig, rappresentano una situazione dove nessun comune meridionale è presente nei primi venti posti della classifica. Anche a non considerare le municipalità con pochi abitanti, come Portofino e Lajatico, prima e seconda con 90 mila e 53 mila euro di media annua per residente, il Nord trionfa con diciotto posti sui primi venti. Nove comuni su venti si trovano in Lombardia, inclusa Milano, decima con 35 mila euro all’anno per residente.
La lista dei redditi regione per regione vede la Calabria ultima con poco più di 15 mila euro pro capite. Poi, il Molise, la Puglia, la Sicilia, la Basilicata, la Campania e la Sardegna. Pesa anche l’impatto demografico. I dati Istat sulla natalità 2023 parlano di 379 mila nuovi nati contro i 393 mila del 2022. È un -3,6 per cento che, nel confronto con i 577 mila del 2008, quasi decuplica (-34,3 per cento). È vero che la denatalità è leggermente meno grave nelle regioni del Mezzogiorno ma lo spopolamento del Sud si aggrava con la fuga dei diplomati, e spesso delle loro famiglie, verso le città universitarie del centro-nord che offrono maggiori prospettive occupazionali dopo la laurea. Secondo calcoli dello Svimez, ventimila studenti all’anno abbandonano le regioni meridionali. Ognuno di loro è costato un investimento di 150 mila euro di spesa pubblica. Dunque, ogni anno c’è un trasferimento implicito di 3 miliardi di euro da sud a nord in aggiunta alla spesa media statale che è di circa 17 mila euro nelle regioni centrosettentrionali contro poco più di 13 mila euro al sud.
«L’esempio più banale di divario sono gli asili nido», dice il sindaco pd di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. «Nella mia città ce ne sono tre, un decimo di Reggio Emilia. Ma lì sono costruiti con trasferimenti dello Stato. Qui bisogna scavare dentro i fondi di coesione che dovrebbero essere risorse aggiuntive e non sostitutive. Lo stesso divario c’è per il trasporto pubblico locale. La proposta politica contro questa legge deve partire dal Sud ma non va interpretata come una questione di campanile. Il decreto fa parte di un patto di legislatura partorito nelle stanze romane che danneggia l’Italia».
La tempistica di un eventuale voto abrogativo è piuttosto stretta. Il governo, peraltro, contesta la possibilità della consultazione popolare perché il decreto Calderoli rientrerebbe nelle materie sulle quali il referendum non è previsto cioè le leggi tributarie e di bilancio, l’amnistia, l’indulto e la ratificazione di trattati internazionali.
Gli avversari dell’autonomia differenziata sanno che il tempo lavora contro di loro. Più ne passa, più la mobilitazione diventerà difficile perché il fattore indifferenza è destinato a crescere di peso. E di referendum falliti per mancato raggiungimento del quorum è piena la storia recente.