L'ITALIA E L'EUROPA
Fitto vicepresidente a Bruxelles, ma servirebbe più in Italia che in Europa
Il ministro del Pnrr è stato nominato Vice Presidente Esecutivo della Commissione europea con delega alla Coesione e alle Riforme. Di famiglia e trascorsi democristiani, ministro degli affari regionali nel governo Berlusconi del 2008 e abile pontiere in Europa da quando è stato eletto a Strasburgo nel 2014, secondo molti sarebbe più utile a Roma, a completare il lavoro iniziato.
Che sarà Raffaele Fitto il prossimo commissario italiano a Bruxelles è dato (quasi) per scontato. «Fitto non è il migliore candidato italiano che possa esprimere questo governo», dice chi lo conosce bene: «È l’unico candidato». Dentro il partito formato famiglia e Colle Oppio di Fratelli d’Italia non c’è traccia di un altro esponente con trascorsi moderati e competenze comprovate tanto da essere diventato padre nobile di FdI. Scartato Fitto, che per un quarto di secolo si è collocato nel campo largo e indeterminato dell’ex centro democristiano, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrebbe piluccare il candidato direttamente dalle riserve al fresco in cantina di Forza Italia, opzione considerata poco praticabile per la timoniera di una coalizione ogni giorno più riottosa.
Fitto tra Roma e Bruxelles
Dunque Fitto è scelta obbligata sia per Roma sia per Bruxelles. Anche se, come ha sottolineato la leader dell’opposizione Elly Schlein, proprio per la sua profonda conoscenza della macchina amministrativa e burocratica italiana, in tempi difficili per il Pnrr, servirebbe molto più in Patria che non in Europa. Eppure l’approvazione della nomina a commissario di Fitto non sarà una passeggiata in campagna ma il risultato finale di un lungo processo di negoziazione. E non tanto per la sua figura politica, generalmente benvoluta sui tappeti blu dei corridoi dell’Europarlamento, lui figlio di un democristiano molto amato, giovanissimo presidente della Puglia, ministro degli Affari regionali nel governo Berlusconi del 2008 e abile pontiere in Europa da quando è stato eletto a Strasburgo nel 2014. «Qui ha sempre lavorato bene e ha sempre tenuto relazioni con tutti i gruppi politici perché è un democristiano, non un fascio», dice una fonte parlamentare italiana del gruppo socialista europeo: «Quando era presidente di Ecr ha vinto la battaglia politica mettendo in minoranza polacchi e ungheresi, mentre quando è andato via ed è arrivato Procaccini è entrato Zemmour».
La collocazione politica e le difficoltà europee
La tortuosità del percorso è però l’inevitabile conseguenza della collocazione politica che Fitto ha scelto cinque anni fa quando si aggrappò al convoglio meloniano, facendosi eleggere grazie al suo deposito personale di elettori pugliesi, per poi muoversi come l’anfitrione europeo di Fratelli d’Italia fino a diventare co-presidente della famiglia politica dei Conservatori a cui FdI appartiene. I conservatori europei sono infatti uno dei tre eurogruppi di estrema destra dell’Europarlamento. E se formalmente non si trovano al di là del cosiddetto cordone sanitario organizzato dai tre gruppi storici – popolari, socialisti e liberali – per impedire ancora una volta all’estrema destra un posto al tavolo delle decisioni, sono però altamente invisi allo schieramento di sinistra. Lo compongono partiti che hanno un’interpretazione troppo personale della libertà di stampa e della separazione dei poteri, dai polacchi del Pys ai francesi razzisti di Éric Zemmour per arrivare a Fratelli d’Italia. Non solo. Il vulnus principale di Fitto è la sorprendente decisione di Giorgia Meloni di non votare Ursula von der Leyen a presidente della Commissione lo scorso 18 luglio, al contrario di verdi, socialisti e liberali che, pur con tanti dubbi, hanno invece messo a disposizione il voto per un "Ursula bis" e oggi reclamano una composizione della Commissione che rispecchi quelle decisioni. A metà ottobre l’Eurocamera, o meglio una parte di essa, aspetterà il ministro italiano al varco. L’entrata in carica dei commissari presentati dagli Stati membri a cui von der Leyen darà la settimana prossima deleghe precise passerà infatti per pochi ma cruciali passi.
Il processo di esame dei candidati
Innanzitutto la commissione giuridica del Parlamento europeo a partire da fine mese esaminerà la dichiarazione di interessi finanziari dei candidati per confermare l’assenza di conflitti di interesse in relazione al futuro incarico. Se insoddisfatta, potrà richiedere informazioni supplementari e trovare una via di soluzione oppure, come avvenne nel 2019 con la romena Rovana Plumb e l’ungherese László Trócsányi, bocciare il candidato. Avuto il via libera di Juri, il commissario in pectore dovrà sostenere un’audizione davanti alla commissione o alle commissioni del Parlamento europeo competenti nei settori di cui si dovrebbe occupare. Queste audizioni valutano i meriti tecnici e politici del singolo individuo. Si tratta di esami veri e propri, con una fase scritta e una orale, il cui verdetto è, per una volta, totalmente appalto degli europarlamentari. Tutto è pubblico. Le risposte ai quesiti, assieme al curriculum del candidato, sono pubblicate sul sito del Parlamento europeo prima dell’esame orale, trasmesso in diretta. La valutazione del commissario avviene invece a porte chiuse e la maggioranza deve essere almeno dei due terzi, altrimenti si ripete l’audizione. Il voto non è scontato: nel 2019 la candidata francese Sylvie Goulard è stata bocciata dalle commissioni parlamentari costringendo Emmanuel Macron a sostituirla con Thierry Breton, oggi nuovamente candidato. Per non parlare di quando, nel 2004, Rocco Buttiglione, proposto da Silvio Berlusconi come commissario per Giustizia, Libertà e Sicurezza, fu bocciato senza appello per avere definito l’omosessualità un peccato.
Il processo di approvazione e le opposizioni
Al termine delle audizioni, la Commissione europea si presenterà in Parlamento per il voto di approvazione complessivo per poi essere nominata dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata ed entrare in carica il primo novembre o, in caso di troppe audizioni negative, il primo gennaio del 2025. Ci sono pochi dubbi che i gruppi parlamentari di estrema destra voteranno a favore di Fitto e che quelli di estrema sinistra saranno contrari. «Valuteremo la candidatura senza preconcetti ma anche senza favoritismi solo perché italiano», dice Valentina Palmisano, dei 5 Stelle, entrati la scorsa estate nella famiglia dell’estrema sinistra parlamentare The Left, che condanna la mancata spesa del 40 per cento dei fondi del Pnrr al Sud, come previsto dai regolamenti. «Ci auguriamo che da commissario faccia meglio che da ministro, ma abbiamo i nostri dubbi». Più duri sono i Verdi, propensi a votare no al «commissario Fitto».
I Verdi e l’opposizione a Fitto
«Dare la vicepresidenza a un partito di estrema destra con pratiche illiberali e antidemocratiche è assurdo», dice Benedetta Scuderi, giovane e combattiva eurodeputata verde. «Io quello lì non lo voto manco morta», rincara la dose Alexandra Geese, eurodeputata tedesca con una lunga storia di vita in Italia: «E poi perché dare una vicepresidenza a chi non fa parte della coalizione di governo?».
I socialisti e il difficile equilibrio politico
La domanda se la stanno ponendo in questi giorni anche i socialisti europei, principali azionisti progressisti del governo von der Leyen, il cui voto su Fitto è molto sofferto per alcune ragioni chiave. Innanzitutto perché si tratterebbe addirittura di una delle quattro vicepresidenze, una sorta di comitato centrale della Commissione che dovrebbe supervisionare anche altri commissari, tanto più con delega non solo al Pnrr ma, si dice, anche all’economia, l’ex portafoglio di Paolo Gentiloni, che però era supervisionato dal presidente esecutivo Valdis Dombrovskis.
Un incarico troppo pesante per l’Italia?
Insomma, un incarico che pare troppo pesante per un governo problematico politicamente di un Paese problematico economicamente, e che in più non ha votato nemmeno la presidente. Del resto c’è pure chi nel governo insiste che il voto contrario del luglio scorso sia avvenuto nel momento in cui si ebbe la certezza che sarebbe stato numericamente ininfluente, e che dunque non ci sia mai stato un vero strappo tra la premier italiana e la presidente europea. Inoltre i socialisti avevano dato il voto condizionandolo fortemente alla “tenuta alla larga” di Ecr dai gangli del potere europeo e per tutta risposta hanno ricevuto da von der Leyen lo smacco di non ritrovarsi tra le nomine a commissario il loro presidente, il lussemburghese Nicolas Schmit. Insomma, hanno dato un appoggio importante e rischiano di ritrovarsi con un pugno di mosche. La presidente del gruppo socialista all’Europarlamento Iratxe García Pérez ha ribadito pochi giorni fa: «Portare l’Ecr nel cuore della Commissione sarebbe la ricetta per perdere il sostegno dei progressisti». Sono dunque alla ricerca di un compromesso che non li umili. «La cosa più importante è l’equilibrio politico tra i gruppi europeisti nella Commissione», dice il tedesco Udo Bullmann: «Vedremo quanto von der Leyen appoggerà Meloni e cosa offrirà ai commissari socialisti. Ma non è scontato il nostro sì». In palio ci sono deleghe pesanti per la ministra spagnola Teresa Ribera che, per controbilanciare non solo il peso di un commissario dell’estrema destra ma anche un eccesso di commissari popolari, potrebbe ricevere una super vicepresidenza con delega sia alla transizione ecologica sia a quella digitale. In Italia Elly Schlein deve scegliere il da farsi. Comportarsi come ha fatto Meloni in Europa e non votare una candidata in nome della coerenza politica o invece adeguarsi per il bene del Paese? Sarà il piano Draghi per l’Europa, approvato sia da Forza Italia sia dal Pd, il faro della decisione finale, che permetterà al Pd di non tradire le sue idee e al contempo mostrarsi responsabile? Non che sia indispensabile.
La geopolitica di Meloni e il ruolo di Fitto
Sotto una fotografia del commissario Paolo Gentiloni con il finanziere americano George Soros a Palazzo Chigi, Meloni scrisse: «Da patrioti siamo felici che all’Italia sia stato assegnato, nella Commissione europea, un portafoglio importante come gli Affari economici e monetari. Peccato che a ricoprire un incarico del genere sia stato chiamato un politico che gli italiani hanno bocciato, hanno mandato a casa e che il M5S ha fatto rientrare dalla finestra grazie al #pattodellapoltrona con il Pd. Gentiloni è l’uomo perfetto per non cambiare nulla in Europa, difendere gli interessi della finanza speculativa e rafforzare l’egemonia franco-tedesca». La premier di oggi è consapevole di giocarsi con questa vicenda anche la geopolitica. Imparando dagli errori leghisti e grillini, si è schierata con gli Usa e non ha contestato il rigore fiscale imposto dai Trattati. Con il candidato Fitto, deve ora equilibrare lo scetticismo e il dissenso di gran parte dei gruppi europei della maggioranza Ursula e la benevolenza di quell’estrema destra che ammicca alla Russia di Vladimir Putin. La via è stretta e non ci sono alternative.