Il generale ricalca la storia di quelle figure militari che hanno preso potere e lo hanno concentrato nelle loro mani senza preoccupazioni democratiche. E per cui si è sempre sviluppata una strana fascinazione

Perennemente al centro delle cronache, dalla querela contro Pier Luigi Bersani alla dichiarazione di non sentirsi offeso se qualcuno lo apostrofa come fascista (un aplomb tutt’altro che inatteso, vien da dire). Nel caso del generale prestato alla politica Roberto Vannacci la strategia propagandistica è veramente da campagna elettorale permanente, senza un attimo di tregua (anche perché, si sa, «boia chi molla»…). Una figura di leader narcisista e vittimista da osservare con attenzione, riconoscendone il talento da comunicatore e acchiappavoti – come da monito di Julio Velasco, uno che di leadership se ne intende parecchio.

 

Eccoci, dunque, al fascino indiscreto dei generali reazionari in politica. Una casistica che “vanta” una lunga tradizione storica, con la discesa in quello che è un altro campo di battaglia. Ne è derivato una specie di “idealtipo”, finito spesso nel modo più drammatico; così, se i vannacciani escludono sarcasticamente ogni «tentazione della sciabola» (e golpista), a partire dalla crisi di fine secolo fra Ottocento e Novecento la storia risulta invece piena proprio di alti ufficiali di estrema destra che hanno compiuto colpi di Stato e si sono lestamente convertiti in dittatori, dalla penisola iberica all’America latina.

 

L’archetipo del generale reazionario che si butta in politica «non andando troppo per il sottile» (diciamola in questo modo…) affonda le sue radici proprio nella turbolenta fase di passaggio dal XIX al XX secolo, tra la Francia di Georges Boulanger e l’Italia di Fiorenzo Bava Beccaris, il famigerato repressore a colpi di cannonate dei moti per il pane di Milano del 1898, successivamente senatore e sponsor con Vittorio Emanuele III dell’assegnazione dell’incarico per formare il nuovo governo a Benito Mussolini.

 

E, in effetti, nella «falange oplita» che segue come un sol uomo l’ex capo della Folgore si ritrova più di una spruzzata in salsa postmoderna di boulangismo, che si fondava sulle parole d’ordine revanche (rivincita e vendetta), revisione (della Costituzione) e restaurazione (in quel caso della monarchia). Accanto al reducismo come «condizione dell’anima», tanto che intorno a lui infittiscono gli ex commilitoni e molto personale militare in congedo, mentre le simpatie in seno a quello operativo si rivelano ampie e abbondanti, impensierendo il ministro della Difesa Guido Crosetto.

 

Il vannaccismo è una manifestazione dello spirito di questi tempi concitati (e preoccupanti), e si inserisce in pieno nella sfrenata competizione per andare sempre più a destra dei neopopulisti odierni. Essendo abituato alla forma mentis del codice militare, che non contempla la messa in discussione degli ordini impartiti, l’eurodeputato leghista «ma non troppo» identifica appunto il modello allo stato puro della destra reazionaria: l’uomo solo al comando.

 

E l’impressione è che dall’«associazione culturale» si passerà prima o poi, con un blitzkrieg, al movimento personale. Perché di mattatori anticomunisti e di maschi alfa dell’ultradestra può rimanerne uno soltanto, anche se per il momento viene ostentato il gioco di squadra. E la Lega sarà stata allora nient’altro che un taxi, o un «partito-omnibus», come si diceva ai tempi – che erano grosso modo gli stessi di Boulanger – di Moisei Ostrogorski, uno dei padri delle scienze politiche.