Archiviato il referendum e la scommessa di Maurizio Landini, la palla torna alla segretaria del Pd, il partito più grande: prossima fermata, le Regionali. Il mantra è sempre l'unità, ma chiave non sono i numeri: è il progetto

Elly Schlein, il quorum e la sfida (lunga) per diventare maggioranza

Tanti, non abbastanza. Nelle piazze a manifestare, nelle sezioni a votare. Il popolo di chi si oppone al governo delle destre, alle sue politiche, è variegato, magari sconfitto, ma tutt’altro che in disarmo. Lo mostrano i numeri di chi è stato pronto a uscire di casa, lo scorso fine settimana, sabato per andare in strada a dire no allo sterminio nella Striscia di Gaza (300mila a Roma), domenica e lunedì nelle scuole di tutta Italia a votare (14 milioni, 15 considerando anche l’estero). Non abbastanza, ma tanti. Chi li può rappresentare, chi li intercetta, chi li fa crescere ancora? Chi li porta dalla sconfitta alla vittoria? Ecco la domanda che traversa i prossimi due anni dell’opposizione di centrosinistra, da qui alle politiche del 2027, con un primo passaggio, il più importante, in mezzo: le regionali dell’autunno prossimo, dove si giocherà già molto, se non quasi tutto, come dimostra l’attivismo di Giorgia Meloni su tasse e terzo mandato.

 

All’indomani della sconfitta dei referendum su lavoro e cittadinanza, con il 30,5 per cento degli italiani a votare – percentuale più bassa pure della forchetta delle previsioni che comunque escludevano il quorum – una prima risposta arriva proprio da quel risultato. I quesiti sui quali la Cgil ha raccolto le firme nel dicembre 2023 erano, nemmeno nascostamente, anche una prova di leadership per Maurizio Landini, giunto a metà del suo secondo mandato alla guida del sindacato di Corso d’Italia. Lo slancio cominciato con il congresso del marzo 2023 a Rimini quando, per la prima volta dopo la drammatica rottura elettorale e la vittoria della destra meloniana, i leader del centrosinistra si erano trovati insieme sul palco della Cgil, da Schlein a Fratoianni, da Conte a Calenda, sotto l’ala del leader Cgil come se lui dicesse: «Non riuscite da soli? Ci penso io».

 

Quella suggestione ha trovato compimento due anni e tre mesi dopo, nel voto referendario: è vero che sotto le insegne delle battaglie sul lavoro (la cittadinanza merita un discorso a parte) si può tenere insieme il centrosinistra, ma manca – è mancato – l’ingrediente magico, quel più uno a fare da lievito, da sogno, quel qualcosa in grado di fare di una moltitudine una maggioranza – quorum o non quorum. Così, riunito da Landini che ha rinverdito le battaglie di dieci anni fa sull’articolo 18, mescolando la lotta alla precarietà alle rivendicazioni per la sicurezza sul lavoro, il centrosinistra ha confermato se stesso (e non era poco) ma non è andato oltre se stesso: 14 milioni hanno votato in Italia i referendum, 13,8 milioni erano i votanti del centrosinistra nel 2022. Con una geografia assai simile tra i due insiemi, dicono le prime analisi del voto: più persone a votare al Nord che al Sud, nelle grandi città più che nelle aree interne, al centro più che nelle periferie.

 

Non è, quindi, fuori dai partiti che, almeno in questa stagione, il centrosinistra trovi soluzione al rebus su come si strappa alla destra lo scettro, come si convince di più. Lo dice il referendum, lo dice per altri versi la piazza. Quella che si è mobilitata per Gaza sabato a Roma, dietro la chiamata stavolta non dei movimenti o della società civile, ma dei partiti: Pd, M5S, Avs, il cosiddetto Campo stretto che già in Parlamento aveva presentato una mozione unitaria. «Unità, unità, unità», è stato sabato 7 giugno l’urlo coalizionista – anche un po’ strano, vista la piattaforma della convocazione – che è salito da piazza San Giovanni nel momento in cui i leader hanno salutato insieme dal palco, dopo essere intervenuti in ordine “rigorosamente alfabetico” (dettaglio che da solo racconta un universo).

 

Ecco che dunque per questa via – dentro i partiti, non fuori – la palla che era o che poteva essere nelle mani di Maurizio Landini torna di nuovo nelle mani di Elly Schlein. Segretaria del partito di gran lunga più grande della coalizione (23,4 per cento secondo il sondaggio Swg di inizio settimana, quasi il doppio del 12,5 per cento del M5S, a sua volta quasi il doppio del 6,5 per cento di Avs), chiamata più degli altri a fare la strada, a tenere insieme ciò che le scelte dei suoi predecessori (citiamo almeno Matteo Renzi ed Enrico Letta) avevano diviso, in termini di battaglie politiche e di alleanze.

 

«I referendum toccavano questioni che riguardano la vita di milioni di persone ed era giusto spendersi nella campagna al fianco dei promotori, senza tatticismi e ambiguità»: all’indomani della sconfitta, onorando i 15 milioni di votanti, la segretaria dem ha riassunto in poche parole – proprio mentre partiva l’attacco interno dei riformisti, Pina Picierno, Lia Quartapelle, Elisabetta Gualmini, Filippo Sensi – in che senso e in che modo ha schierato il suo Pd dentro quella battaglia. «A fianco dei promotori» perché «era giusto»: non tra i promotori, ma dentro la linea della sua storia e della sua segreteria, dentro l’idea che il Pd debba tornare a essere, senza più subalternità nei confronti della destra, anzitutto là dove sono i lavoratori, i precari, gli ultimi, perché «è quella la nostra casa». Ma non è chiaramente quella la battaglia che Schlein avrebbe scelto per il 2025: non a caso, i militanti dem l’anno scorso erano stati invece chiamati a raccogliere le firme per il referendum contro la legge sull’autonomia differenziata (quesito poi dichiarato inammissibile dalla Consulta), una battaglia dell’oggi, che teneva unita tutta l’opposizione senza riaprire la corrida tra renziani, non renziani, ex renziani.

 

L’unità torna dunque ancora una volta a essere il mantra numero uno – il più semplice e insieme il più difficile – per provare a contendere la vittoria al centrodestra, a partire dalle prossime regionali d’autunno, in Campania, Marche, Puglia, Toscana, Veneto. Era del resto sempre quello l’ingrediente principale della sconfitta del 2022 (quando già il centrosinistra unito avrebbe avuto un milione di voti in più del centrodestra), è per converso l’ingrediente vincente anche in ultimo a Taranto, dove il centrosinistra ha vinto nei ballottaggi con Pietro Bitetti anche grazie alla non ostilità dei Cinque stelle (al primo turno avevano un loro candidato) o a Nuoro, dove l’opposizione unita ha preso il comune al primo turno con il pentastellato Emiliano Fenu.

Con però due linee problematiche. Anzi tre. La prima, cui si accennava prima, riguarda la dialettica interna al Pd: chiuse le urne referendarie, la parte dem che si sente troppo stretta nella minoranza teoricamente guidata da Stefano Bonaccini ha ricominciato a far sentire la sua voce, stavolta criticando la linea sui referendum come due mesi fa la linea sul piano ReArm Ue; è un malessere che va a ondate, nella evidente richiesta di un assetto diverso nei rapporti di forza interni ai dem (anche in vista delle liste per le Politiche).

 

La seconda linea problematica riguarda il rapporto tra Pd e Cinque stelle, i primi due partiti della coalizione. La piazza comune su Gaza ha autorizzato un ottimismo circa la possibilità di un’alleanza più stabile del campo progressista: eppure chi era in strada ha visto un distacco reciproco, anche nella gente, tra mondi che si affiancano ma non si mescolano. Ma parlano anche i risultati del referendum. Scarso l’afflato pentastellato alla partecipazione in generale, salta agli occhi il dato politico relativo al quesito sulla cittadinanza: unica su cinque sulla quale Conte aveva dato libertà di coscienza, la scheda ha ricevuto solo il 65 per cento di sì (contro l’88 per cento ottenuto in media dalle altre quattro schede). Significa che un elettore su tre ha votato no, vanificando anche il favore sul punto dell’area riformista-renziana. Ecco, dunque, che nel cuore della costruzione dell’alternativa c’è una spaccatura evidente su un punto non affatto secondario, per la costruzione valoriale del centrosinistra: e, cosa ancora più grave, la spaccatura si trova nella base, ancor prima che nei vertici. Vale a dire: anche se Conte ha radicato il M5S a sinistra, continua a raccogliere anche i voti di chi tifava per la linea decreti sicurezza e taxi del mare dei tempi del governo gialloverde con Matteo Salvini.

 

La terza linea problematica riguarda, quindi, la domanda iniziale: come si fa crescere e si allarga quel consenso che, a prendere in prestito i risultati del referendum, come minimo parte dai 9 milioni di sì al quesito sulla cittadinanza? Il consolidamento della coalizione, fino a ora, è proceduto per fatti concreti: ci si è alleati attorno a un tema specifico, a un candidato, a un territorio. È così che sono arrivati risultati con profili diversi fra loro, anche a livello locale: un anno fa, a Perugia, diventava sindaca Vittoria Ferdinandi, grazie a una coalizione larga ma anche civica; parallela, e opposta, rispetto a quella che due settimane fa ha portato alla vittoria a Genova Silvia Salis.

 

Certo, allo stato, è proprio quello moderato il fronte più disastrato: non solo per la ormai paradigmatica competition Renzi-Calenda, ma soprattutto per l’assenza di qualcuno o qualcosa che faccia da magnete: perso nella notte l’astro nascente Ernesto Maria Ruffini, non si vedono altri all’orizzonte. Eppure servirebbero, se non altro a mettere ordine. Mentre il borsino dei federatori langue, ma non si azzera: in calo le azioni del sindaco di Milano Beppe Sala, acquietato il tifo attorno a Paolo Gentiloni, mai tramontato il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, si registra come nuovo ingresso il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Raccontarlo come il nuovo Prodi appare tuttavia quantomeno difficile

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