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Politica
gennaio, 2025

Il cardinale Alfredo dalla corte di Meloni intravede il Colle

Curiale e felpato, Mantovano, braccio destro della premier accumula potere, nei Servizi e negli apparati, gestisce nomine e rapporti, scalza rivali, da Fazzolari a Tajani. Obiettivo: il Quirinale

Giorgia Meloni l’ha citato per nome e cognome cinque volte, una in più di quanto abbia ripetuto le parole «Palazzo Chigi», una in meno della parola «elezioni». La fase scintillante di Alfredo Mantovano, paradossale per uno che ama l’invisibilità, si può cominciare a raccontarla da qui, dal piccolo record di corte: il 9 gennaio alla Camera è stato di gran lunga il più nominato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel rito di Palazzo della conferenza stampa di fine-inizio anno che, come altre simili celebrazioni, offre più che altro istantanee sullo stato dell’arte degli equilibri del potere. Chi c’è, chi non c’è, chi viene citato, chi no. Poca cosa si dirà, ma sono dettagli che raccontano mondi.

 

«Voglio ringraziare il sottosegretario Alfredo Mantovano, voglio ringraziare tutta l’intelligence, devo ringraziare il ministro degli Esteri, Antonio Tajani e tutto il corpo diplomatico», è stato il primo tributo di Meloni, il più sfizioso per via di quella precisa scelta di verbi servili. Voglio ringraziare, devo ringraziare: bella differenza, per la gioia del ministro degli Esteri, peraltro assente. Invece in prima fila, assiso da cardinale, quasi fosse un interprete del film “Conclave”, è avvampato per ogni citazione ma senza dare altri segnali di sé il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, nato a Lecce 67 anni fa, magistrato, già parlamentare e consigliere di Cassazione, detto anche la «carta copiativa» di Meloni e prezioso per il suo essere crocevia di mondi (politica, magistratura, cattolici) con ottimi rapporti sia in Vaticano che al Quirinale, che si trovava nella saletta dei gruppi di Montecitorio ad ascoltare come consuetudine la premier, accanto alla segretaria onnisciente Patrizia Scurti (l’unico elemento che varia, da un anno all’altro è se egli sia alla sua destra o alla sua sinistra: quest’anno alla sua destra). Poco dopo le citazioni, durante l’intera domanda e risposta in merito all’addio anticipato di Elisabetta Belloni dalla guida del Dis, l’organismo di raccordo tra Palazzo Chigi e le agenzie di intelligence, Mantovano è rimasto nella foggia della statua di sale, mollando anche il telefono: pur di non offrire spunti ulteriori alla cronaca pare abbia persino smesso di respirare, ma comunque senza darlo a vedere. Era già troppo, per i suoi standard, quanto ricordato sui giornali quei giorni circa i pessimi rapporti tra lei e lui.

 

«Rosario Livatino non era uno che si mostrava, il riserbo era un suo comandamento», aveva sottolineato ricordando il 21 settembre, con un’intervista a Radio Radicale, quello che per tanti versi è un suo modello, il giudice-beato, ucciso dalla mafia a 38 anni nel 1990. L’ennesima declinazione di un imperativo morale, per il sottosegretario che, curiale e felpato, è solito deludere i cronisti sostenendo di non aver «nulla da aggiungere» per poi precisare, col tono di chissà quale confidenza, di «detestare essere superfluo». Farsi ombra è in effetti una delle spiccate caratteristiche dell’uomo, la prima che ha portato ad accostarlo al predecessore dei predecessori, Gianni Letta. La prima e, fino a poco tempo fa, quasi l’unica. 

 

Perché bisogna intendersi: nei meccanismi del potere il sistema tolemaico è ancora in vigore, certi spostamenti sono apparenti. Insomma a volte tu stai fermo, sono gli altri che si muovono. E in questo anno, più che Mantovano medesimo, sono i vari possibili comprimari suoi ad essersi mossi, magari perdendo posizioni nella gara da museo delle cere dell’affidabilità istituzionale, o magari perché si occupano di questioni meno di prima linea. È accaduto ad esempio al ministro della Difesa Guido Crosetto, inspiegabilmente accusato di impulsività. O, meno imprevedibile, all’altro braccio operativo di Meloni a Palazzo Chigi, Giovambattista Fazzolari, che dopo le reboanti interviste sull’uso di armi e affini si è piuttosto inabissato, essendo peraltro più uomo da questioni politico-partitiche (il no a Matteo Salvini agli Interni) che di istituzioni e relazioni. Mentre il suo gemello diverso di Palazzo Chigi, quello che con lui condivide l’intimità del corridoio adiacente alla stanza della premier, è stato il sopracciglio da osservare per quel che riguarda il dossier Consulta-giudici-autonomia differenziata-referendum.

 

In un’agenda fatta, in questa fase, anzitutto di questioni internazionali, intrighi Oltralpe, operatività servizi segreti è peraltro in certo modo fatale che sia proprio Mantovano a spiccare di più. In ultimo nel caso della trattativa per la liberazione di Cecilia Sala che l’ha visto in prima linea, in stretto contatto con un uomo da lui stimato come il capo dell’Aise Gianni Caravelli, che materialmente nelle ore più calde era dall’altra parte del telefono, a Teheran, a gestire la delicata operazione.

 

C’è da dire, sempre a proposito di apparati, che a fare un giro d’orizzonte Mantovano sfiora ormai il filotto delle nomine: Bruno Valensise capo dell’Aisi su sua spinta (Fazzolari e Crosetto avrebbero preferito Giuseppe del Deo), stesso discorso per Andrea de Gennaro alla Guardia di Finanza in maggio. L’unica eccezione è nella partita sui Carabinieri, vinta per così dire in autunno dal titolare della Difesa con Salvatore Luongo. Mentre l’ultimo pezzo del puzzle mantovanico è la nomina di Vittorio Rizzi al Dis al posto di Belloni (diciamo tra parentesi: Mantovano tentò di sostituirla già 12 mesi fa, prima che Meloni la nominasse sherpa del G7). 

 

Un panorama di rapporti di forze che a qualcuno ha fatto sussurrare sia possibile a questo punto l’avvio della riforma dei Servizi di cui s’era già parlato un anno e mezzo fa, ma che nell’immediato dice in che modo questa destra si stia giocando la partita della presa dei gangli di potere, dopo aver sostenuto per un primo tratto di cammino il giuoco di una certa continuità rispetto a Mario Draghi, che da premier nominò Belloni al Dis ma col quale Meloni non pare abbia più interesse a una particolare sintonia, come è emerso nel corso dell’ultimo – pur strombazzato – incontro di settembre.

 

Insomma sembra passata una vita da quando, pochi mesi fa, nel totonomi a destra per le prossime regionali in Puglia era comparso proprio quello del sottosegretario che nella natia Lecce aveva cominciato a fare il magistrato: proprio lui, da far candidare contro Antonio Decaro, appena eletto in Europa con record di preferenze, e naturalmente nel ruolo di perdente. Ma di questa ipotesi si sono abbastanza già perse le tracce, e del resto già una volta Mantovano ebbe a scottarsi con la sua terra d’origine: candidatosi nel 2001 nel leggendario seggio di Gallipoli contro Massimo D’Alema, perse di poco (entrò in Parlamento col recupero proporzionale) per via dei voti che, secondo una ricostruzione ormai dal sapore leggendario visti anche i destini dei protagonisti, transitarono dal centrodestra in direzione dell’ex premier diessino, attraverso l’allora responsabile regionale di Forza Italia, Raffaele Fitto, oggi commissario europeo in quota Meloni.

 

In un panorama governativo non certo florido di personalità in crescita, che nel volgere di poco ha perso per strada anche il promettente astro di Gennaro Sangiuliano, e dove l’unico altro a non calare, tra gli ascendibili, è il Guardasigilli Carlo Nordio per la sua paradossale eccellenza nel fare esattamente quel che la premier gli chiede, ecco invece saldo, e dunque in crescita, è il profilo di Mantovano. Capace di rapporti trasversali, ad esempio con il piddino presidente del Copasir Lorenzo Guerini, ma profondamente incardinato a destra, cattolico tradizionalista, presidente della sezione italiana della fondazione “Aiuto alla chiesa che soffre”, ultraconservatore su aborto, famiglia, fine vita, droga, diritti del mondo Lgbtqia+ in genere. Con una frequentazione non solo della politica: ancora prima di entrare a Palazzo Chigi, oltre ai ruoli di parlamentare e membro del Copaco (antenato del Copasir), Mantovano aveva al suo attivo i nove anni da sottosegretario all’Interno nei governi Berlusconi, con Claudio Scajola, Beppe Pisanu e Roberto Maroni. Ha quindi già da tempo un saldo rapporto con gli apparati dello Stato, una caratteristica di quasi tutti gli ultimi presidenti della Repubblica, ex ministri dell’Interno come Oscar Luigi Scalfaro o Giorgio Napolitano, oppure della Difesa come Sergio Mattarella. Una caratteristica che non è da sottovalutare, in un tempo dove – è vero – il personalismo di Giorgia Meloni è in continua espansione, come l’universo. Ma a un certo punto qualcuno capace di interpretare altri ruoli servirà.

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