Politica
27 novembre, 2025Articoli correlati
La leader dem brandisce il filo magico dell’unità. La premier, colpita nei suoi affetti più cari, paga la sua assenza. Il voto in Campania, Puglia e Veneto disegna la partita del 2027
Presidente, la vedo preoccupata della stabilità dei governi, forse teme per quella del suo?». Era il 9 maggio del 2023, due anni e mezzo fa, primo incontro tu per tu tra Elly Schlein e Giorgia Meloni, a Palazzo Chigi, a margine del tavolo con le opposizioni sulla riforma del premierato. Meloni era al governo da sei mesi, Schlein aveva vinto le primarie del Pd da meno di tre, eppure la domanda che fece alla premier è quella che si potrebbe farle oggi, giusto mutando l’urgenza-premierato di allora, in urgenza – legge-elettorale di adesso: presidente, forse teme per la sua stabilità? Mai come nella notte di lunedì scorso, dopo lo spoglio di Campania, Puglia e Veneto – le ultime tre regioni al voto fino alle politiche 2027 – è parsa attuale, quella domanda.
E devono averlo pensato entrambe le leader, in quel momento. Elly Schlein in automobile per il Sud Italia a salutare la vittoria del centrosinistra con 25 punti di distacco in Campania, sul palco con Roberto Fico a Napoli, e poi quella con 29 punti di distacco in Puglia, abbracciando il già riluttante Antonio Decaro a Bari; Giorgia Meloni più solitaria nella notte luandese, in Angola, dopo il vertice con l’Unione africana, mentre da Roma la velina di Fazzolari raccomandava a tutti di fare per il Veneto i paragoni solo col voto di cinque anni fa (l’unico rispetto al quale Fratelli d’Italia avesse guadagnato consensi) e di sottolineare come il turno elettorale fosse finito 3 a 3, ossia sostanzialmente con un pareggio, tra maggioranza e opposizione.
Ma è tutto tranne che un pareggio, questa ultima tornata elettorale che vede avvinte, ancora una volta, le prime due leader donne italiane a comandare in un mondo sin qui fatto sostanzialmente di uomini e per gli uomini. Simmetriche nella passione politica, nella testarda puntigliosità e nel riconoscimento reciproco dello sforzo fatto per arrivare fin dove sono, fatalmente divise su quasi tutto il resto. Certamente sui piatti opposti della bilancia per quel che riguarda vittoria e sconfitta – tanto più che si tratta di due bipolariste convinte, e questo è un dettaglio da non dimenticare nei prossimi mesi – anche questa volta, che vede Schlein mai così vittoriosa e sfidante nel rivendicare il proprio «stravinciamo», il «governo è contendibile» e «la partita è apertissima», e Meloni mai così colpita, come adesso, nei suoi affetti più cari: il suo partito, Fratelli d’Italia, che patisce una sconfitta bruciante e inedita (doppiato dalla Lega in Veneto, quasi pari con Forza Italia in Campania) e la famosa stabilità della sua coalizione, del suo centrodestra, alla quale sta già pensando come porre rimedio.
Ecco dunque che il risultato per il centrosinistra e per il Pd arriva alla fine di anni di impegno e mesi di tessitura di quello che Elly Schlein ha sempre considerato uno dei punti cardine del proprio mandato: l’unità del fronte progressista, divinità laica alla quale la segretaria del Pd ha spesso sacrificato la propria visibilità personale, la titolarità di una proposta di legge o di una polemica, il titolo su un giornale. A costo di farsi dire che scarseggiava di iniziativa. Per dire dove eravamo: un anno fa, di questi tempi, Elly Schlein subiva la legge regionale con la quale Vincenzo De Luca, anche con i voti dei consiglieri dem, tentava (invano) di autoconsentirsi anche il terzo mandato. Ma neanche allora la segretaria dem smetteva di tessere un dialogo col governatore campano, convinta che alla fine avrebbe avuto la meglio, per convincerlo a mettersi da parte senza sconquassi, come poi accaduto anche a costo di un cinico e politicissimo baratto sulla segreteria regionale. E faceva asse con Meloni, contro il terzo mandato, poi in effetti bocciato su tutta la linea (come sa anche bene Luca Zaia). E trattava con Giuseppe Conte non solo sulla candidatura dell’ex presidente della Camera Roberto Fico (che, fra le altre cose, un bel pezzo del Pd campano non voleva), ma su un complessivo disegno di alleanze sul territorio, dalla Toscana alla Calabria, che il leader dei Cinquestelle, fino ad allora, aveva sempre scansato lontano da sé come un Superman la kryptonite, ma che invece ha alla fine trovato conveniente per il suo partito, anche viste le percentuali (comunque basse) sulle quali si è ormai assestato il M5S negli ultimi tre anni. «Le forze della coalizione progressista sono state unite in tutte e sette le regioni per la prima volta in vent’anni», ha rivendicato Schlein in conferenza stampa martedì.
L’unità è quindi la chiave della svolta, per lo meno della ripartenza possibile per il centrosinistra che nel 2027 sembra determinato a giocarsi la partita: la vittoria di Fico in questo somiglia a quella di Silvia Salis a Genova, a quella di Stefania Proietti in Umbria un anno fa, di Vittoria Ferdinandi a Perugia nella primavera 2024, di Alessandra Todde in Sardegna a febbraio di quell’anno, giusto per citare l’altra regione che in questi tre anni il centrosinistra ha strappato alla destra. Ciascuna vittoria ha un nome, ma chi ha testardamente tenuto in mano il lembo di quel filo magico, e scomodissimo, ha in mano l’intero gioco, la formula per replicarlo. Gli altri no.
Sarà quindi da domani assai meno facile, ritentare il gioco “smonta la segreteria del Pd” con una leader che ormai parla apertamente di primarie di coalizione, essendo il suo l’unico partito a due cifre della coalizione. E che nel Pd è blindata (dai +9 punti in Liguria ai +9 punti in Puglia, il partito in tre anni è cresciuto ovunque, sia dove ha vinto che dove ha perso), come sanno ahiloro anche franceschiniani, orlandiani e speranziani organizzatori della tre giorni di Montepulciano, iniziativa lanciata con la nemmeno segreta intenzione di commissariare Schlein e destinata probabilmente a finire (lo vedremo) in apoteosi sovietica. Stile Leopolda dei tempi d’oro, per intenderci.
Sul fronte opposto, anche Giorgia Meloni paga la linea tenuta in questi anni e in questi mesi. Il bruciante testa a testa con Forza Italia in Campania, finito poi con un punto (11 a 10 per cento) e poche migliaia di voti di distacco, è un segno più grave di quanto possa parere: non solo perché Fratelli d’Italia aveva voluto per sé a tutti i costi il candidato governatore, il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, o perché in campagna elettorale si è giocata tutte le carte che aveva, dai blitz di Arianna Meloni, alle polemiche sul gozzo di Fico, alla candidatura dell’ex ministro Gennaro Sangiuliano, ma soprattutto perché proprio per la Campania il governo si è speso particolarmente, dal decreto Caivano alla Zes fino al condono edilizio in limine urne. E fa il pari, il caso Campania, con il clamoroso risultato del Veneto, dove l’astensione è stata ancora più alta che altrove (è salita di 16 punti rispetto al 2020) e dove però il partito della premier si è ritrovato ridotto della metà rispetto alla Lega di Matteo Salvini o per meglio dire in questo caso di Luca Zaia: il famoso derby tra Fdi e Carroccio, quello in base al quale si sarebbe stabilito anche il futuro candidato in Lombardia, è finito 18 a 36 per cento, smentendo i sondaggi che fino a un minuto prima dell’apertura delle urne davano i Fratelli d’Italia oltre il 36 per cento
Risultati pesanti, soprattutto per il partito della premier. Ma non casuali, non frutto di uno scherzo della sorte.
È dalla salita a Palazzo Chigi che Fratelli d’Italia soffre, in maniera sempre più evidente, dell’assenza della sua leader incontrastata. E soffre, più in generale, di una mancata evoluzione, di una evoluzione congelata. Bisogna tornare per un momento indietro di qualche anno. C’è infatti passaggio, nella pur breve storia del nuovo partito di via della Scrofa, che è decisivo: quello in cui i vari colonnelli smettono di giocare alla reunion di Alleanza Nazionale e puntano tutto su Fdi come partito di Giorgia Meloni. Sono i mesi che precedono le elezioni europee del 2019, quelle dell’apoteosi elettorale e poi del crollo politico della Lega di Matteo Salvini: è in quell’anno l’astro di Meloni comincia a brillare.
Ma, appunto, come un diamante solitario. Che non può o non vuole circondarsi di una classe dirigente adeguata, per quel che riguarda la gestione complessiva del governo e del potere. E che non vuole e non può lasciare che il partito venga gestito oltre la sua impronta: né come linea politica, né come gestione pratica. Non per caso l’organizzazione in questi anni è rimasta in mano a Giovanni Donzelli, cui si è aggiunto come contrappeso il ruolo di segretaria organizzativa di Arianna Meloni: un dualismo che ha prodotto lotte intestine e sostanziale immobilismo, perché nessuno fa niente se Giorgia Meloni non vuole. Ma l’immobilismo è il contrario della politica, e i risultati si vedono.
Ecco dunque che Meloni, per riprendere la spinta, progetta adesso di procedere su un doppio binario. Da un lato, come già si vede, vuol politicizzare al massimo grado del referendum sulle carriere dei magistrati, cioè sull’unica riforma che è riuscita finora a realizzare, previsto in primavera: la premier, ricordando la fine che ha fatto Renzi col suo referendum costituzionale nel 2016 – e complice un sistema mediatico piuttosto organizzato per venirle incontro – non intende però mettersi un bersaglio sulla fronte, anzi. Punta a rovesciare l’onere del referendum il più possibile sull’opposizione, come se non si trattasse di una legge che ha voluto e realizzato il suo governo, ma al limite una riforma targata Schlein-Conte-Bonelli-Fratoianni.
In contemporanea, ha già ricominciato a lavorare sulla legge elettorale: l’attuale, che premia le coalizioni e che le ha consentito fin qui la stabilità diventata il suo maggior vanto, è diventata scomoda, incerta, instabile. Soprattutto visto che, Regionali alla mano, il centrosinistra sembra davvero avere le carte per non ripetere il suicidio del 2022, quando si presentò diviso in tre tronconi. Nessuno, d’altra parte, a Palazzo Chigi ha dimenticato che al Senato il centrodestra ha vinto per dieci collegi: e solo in Puglia e Campania, di collegi andati al centrodestra ce ne sono otto. Ma i risultati del voto regionale, con l’exploit della Lega e di Zaia in Veneto, come pure con i buoni risultati di Forza Italia nelle tre regioni, non aiuteranno Meloni a disegnarsi una legge elettorale nella quale il partito della premier diventerebbe ancora più prevalente sugli altri due di quanto non lo sia ora. Ed Elly Schlein, su questa strada, non sembra intenzionata ad aiutarla: visto come è andata sin qui, nei prossimi mesi la si vedrà ancora più fuori dai Palazzi, che dentro ombrose stanze a stringere accordi segreti.
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