I privilegi della casta
Se immunità è sinonimo d’impunità
I partiti di governo vogliono ripristinare l’autorizzazione a procedere totale per i parlamentari. Intanto si abusa dell’insindacabilità per le opinioni, intesa spesso come licenza di diffamare
Sognano l’immunità totale: il potere di bloccare la giustizia con un voto politico della loro maggioranza parlamentare. E intanto abusano delle immunità che hanno già, a cominciare dall’«insindacabilità»: una tutela democratica della libertà di opinione che è degenerata in licenza arbitraria di screditare e diffamare persone innocenti.
In queste settimane due partiti di governo, Forza Italia e Lega, con alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, hanno rilanciato la vecchia proposta di ripristinare l’autorizzazione a procedere, cioè il divieto di sottoporre a procedimento penale un parlamentare senza il permesso dei suoi colleghi della Camera o del Senato. È un privilegio da casta politica che fu abolito nel 1993 dal Parlamento stesso, a larghissima maggioranza, quando le indagini milanesi di “Mani pulite” svelarono il massiccio sistema di corruzione che per decenni aveva dominato e danneggiato l’Italia (documentato da oltre 1.200 condanne oggi dimenticate). Nell’articolo 68 della Costituzione è, invece, sopravvissuta la norma che protegge la libertà di pensiero applicata alla politica: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni date e dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni».
Giuristi come Gustavo Zagrebelsky e Andrea Pisaneschi hanno rintracciato l’origine di questa immunità in una risoluzione della Camera inglese del 1667, poi recepita nel Bill of Rights: «Se una legge non può far torto a nessuno, egualmente deve dirsi di chi l’abbia all’inizio proposta. I membri della Camera devono essere liberi esattamente come la Camera». Inserita nella Costituzione italiana, nata dalla Liberazione dal nazifascismo, all’inizio l’insindacabilità veniva invocata soprattutto per difendere parlamentari dell’opposizione di sinistra, impegnati a denunciare in sede politica presunte corruzioni, connivenze mafiose, omicidi di sindacalisti, stragi di contadini. Nel passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica, però, l’insindacabilità è diventata una specie di scudo stellare, utilizzato principalmente da parlamentari di centrodestra, per fermare qualsiasi processo per diffamazione e perfino per reati più gravi.
«I casi di insindacabilità sono cresciuti per numero, frequenza e campi di applicazione a partire dagli anni Novanta», spiega l’avvocato e giurista milanese Carlo Melzi d’Eril, esperto di Diritto dell’informazione. «L’estensione eccessiva di questa prerogativa, che rischia di lasciare senza alcuna tutela legale le vittime di attacchi denigratori anche gravissimi, ha determinato una serie di interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha fissato dei limiti generali. La nostra Corte costituzionale ha poi applicato e precisato questi princìpi risolvendo decine di conflitti tra magistratura e classe politica».
Tra i casi conclamati di abuso dell’immunità spicca la delibera con cui il Senato, nel 2015, ha affermato che «rientra nelle funzioni parlamentari» dichiarare in un comizio che una ministra con la pelle nera ha «sembianze di orango». È un insulto razzista proferito nel 2013, a una festa della Lega nella Bergamasca, da Roberto Calderoli, allora vicepresidente del Senato, per screditare Cécile Kyenge, ministra per l’Integrazione di origini congolesi, cittadina italiana dal 1994, laureata in Medicina alla Cattolica, eletta deputata nel 2013 con centomila preferenze ed europarlamentare dal 2014 al 2019. Nel 2016 il Tribunale di Bergamo fa intervenire la Corte costituzionale, che annulla la delibera del Senato: l’insindacabilità «non può essere estesa sino a ricomprendere gli insulti». Quindi il processo riprende, ma alla fine vince comunque Calderoli. L’ex ministro leghista viene condannato in primo e secondo grado, ma nel 2023 la Cassazione ordina di rifare l’appello per un vizio procedurale: il mancato rinvio di un’udienza per malattia. Calderoli viene ricondannato, ma nel 2024 la Cassazione, pur riconfermando la «diffamazione con l’aggravante del razzismo», deve dichiarare la prescrizione del reato.
Negli ultimi trent’anni la Consulta ha dovuto risolvere decine di conflitti. Numerose pronunce riguardano alcuni politici, accusati di molte diffamazioni. Il primo è Vittorio Sgarbi che già dagli anni Novanta colleziona querele e cause civili per i suoi attacchi televisivi ai pubblici ministeri del pool Anticorruzione di Milano e dell’Antimafia di Palermo. I suoi processi fanno giurisprudenza: la Corte costituzionale stabilisce per la prima volta che anche un parlamentare, se sparla di «magistrati assassini», va processato per diffamazione. Un altro recordman è stato il compianto Lino Jannuzzi, l’ex giornalista che, dopo l’elezione in Parlamento con Forza Italia, scatenò campagne denigratorie contro il procuratore Gian Carlo Caselli e altri magistrati: condannato più volte dopo la revoca dell’insindacabilità, ha poi beneficiato della grazia.
Diverse pronunce, con esiti alterni, riguardano Silvio Berlusconi. Ad esempio nel 2010, quando era capo del governo, la sua maggioranza ha dichiarato «insindacabile» un suo attacco (uno dei tanti) ad Antonio Di Pietro: Berlusconi insinuava che l’ex magistrato si sarebbe «laureato senza studiare, grazie ai Servizi segreti». La Corte costituzionale nel 2013 ha tolto l’immunità al Cavaliere, sottolineando che l’accusa era falsa, per cui rappresenta «solo un’offesa» senza dignità politica. In altri casi, invece, Berlusconi ha visto confermare l’immunità. La Consulta è intervenuta più volte anche a sfavore di Maurizio Gasparri, che si è visto annullare svariate immunità politiche, tornando sotto processo con l’accusa di avere diffamato plotoni di giudici e perfino giornalisti.
Uno dei casi più assurdi riguarda Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Milano, eletto nel 2013 senatore di Forza Italia. Nel 2014 il Senato ha dichiarato «insindacabile» un suo attacco del 2012, totalmente infondato, contro l’allora magistrato milanese Alfredo Robledo, che l’ha contro-denunciato. Dopo un lungo iter, nel 2021 la Corte costituzionale ha annullato quell’alibi politico retroattivo: non si può avere l’immunità ancor prima di diventare parlamentare. Memorabile anche il caso dell’ex ministro Carlo Giovanardi. Nel processo “Aemilia” contro la ’ndrangheta, viene intercettata una sua manovra per cancellare le interdittive antimafia che hanno colpito due aziende emiliane. Giovanardi viene quindi accusato di avere minacciato il prefetto di Modena, prospettandogli trasferimenti punitivi, e utilizzato atti segreti. Nel 2022 il Senato a maggioranza gli concede l’insindacabilità. Ma il tribunale ricorre alla Corte costituzionale, che nel dicembre 2023 la annulla: le minacce e le violazioni del segreto istruttorio «non sono riconducibili alla nozione di opinione».
A forza di pronunce costituzionali, la situazione legale ora è più chiara. «La Corte europea ha fissato un limite generale», riassume Melzi d’Eril: «L’insindacabilità è piena per votazioni, interrogazioni e altri atti parlamentari tipici. Fuori dal Parlamento, va riconosciuta solo in via eccezionale: un comizio elettorale o un discorso televisivo, ad esempio, devono avere un contenuto che corrisponda a specifici atti parlamentari. Ma il rischio di abusi chiaramente c’è ancora: non si può escludere che un atto parlamentare possa essere precostituito per creare una sorta di alibi».