A loro i guantoni. La politica suona il gong

Siena, piazza Salimbeni, sede della banca Monte dei Paschi
Siena, piazza Salimbeni, sede della banca Monte dei Paschi

Uno, Lovaglio guida Mps, la banca politica per eccellenza che tanto ha dato ai partiti. Un passato in Unicredit, ha cambiato aria quando è arrivato Mustier. L’altro, Nagel, regna dal 2007 a Mediobanca e tiene la roccaforte di Generali. Sulla carta un match dall’esito scontato. Con una variabile: FdI

Luigi Lovaglio racconta che il suo piano coincide con l’arrivo di Giorgia Meloni a palazzo Chigi. È il 16 dicembre 2022 quando l’amministratore del Monte dei Paschi prospetta al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti una clamorosa alternativa alle varie ipotesi sul futuro di Mps: l’assalto a Mediobanca. Lovaglio è a Siena da appena dieci mesi. L’ha spedito lì il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera d’accordo con Daniele Franco, il ministro dell’Economia del governo di Mario Draghi, dopo aver sfiduciato il suo predecessore. Guido Bastianini era stato nominato in piena pandemia dal secondo esecutivo di Giuseppe Conte, quello con il Partito democratico al posto della Lega di Matteo Salvini. Le ricostruzioni giornalistiche dell’epoca dicono che era sponsorizzato dai vertici del Movimento 5 stelle, e infatti la sua defenestrazione scatena la rivolta grillina. Ma non solo. Contro la cacciata di Bastianini, ritenuta irragionevole perché la banca è tornata in utile, si schierano anche i leghisti e un pezzo del Pd. Tutto inutile: il Mef va per la sua strada e all’ex amministratore delegato non resta che fare causa. Il giudice gli darà ragione, ma senza reintegrarlo. Per la banca più antica al mondo che sta attraversando una fase di difficile (e costosissima) convalescenza dopo aver rischiato il crac, è l’ennesimo trauma. A questo punto nessuno potrebbe neppure immaginare gli sviluppi successivi.

 

La sola idea che il Monte dei Paschi possa trasformarsi da preda annunciata in predatore, e in così poco tempo, ha l’aria di un azzardo. L’ultima volta che i senesi hanno provato a mandare giù un boccone nemmeno così grosso, cioè l’Antonveneta, gli è rimasto sul gozzo con il rischio di soffocare se non fosse intervenuto lo Stato. Sono pure due mondi che più lontani non potrebbero essere. Il Monte dei Paschi è la banca politica per eccellenza, l’unica che di fatto non è mai stata privatizzata. Nel dopoguerra è passata di mano in mano fra tutti i partiti di quello che una volta si chiamava l’arco costituzionale: dalla Democrazia cristiana al Partito socialista, agli eredi del Partito comunista. E fin dall’unità d’Italia non ha mai lesinato aiuti e sostegni ai potenti di turno, che poi non pagavano. Capitò anche a Giuseppe Garibaldi.

 

Mediobanca invece è stata il tempio della grande finanza privata italiana. In ottant’anni ha avuto soltanto quattro comandanti in capo: il suo fondatore Enrico Cuccia e i tre successori tutti perfettamente in linea con il suo credo e i suoi metodi. Prima Silvio Salieri, per sei anni. Poi Vincenzo Maranghi, per diciannove anni. Quindi Alberto Nicola Nagel, che regna incontrastato dal 2007. Milanese di nascita, a giugno Nagel compirà sessant’anni. Ha fatto il liceo dai gesuiti e poi l’università alla Bocconi prima di venire assunto a Mediobanca, dove ha trascorso l’intera vita professionale. Per il ruolo, un pedigree perfetto. Tutt’altra storia quella di Luigi Lovaglio, che all’inizio del prossimo agosto avrà settant’anni. È nato a Potenza ma dall’inflessione della voce si capisce che è bolognese d’adozione. All’università di Bologna, città dov’è arrivato da piccolo con la famiglia, si è laureato in Economia mentre già lavorava in banca. Il curriculum dice che è entrato al Credito Italiano addirittura nel 1973. E a meno che la data non sia sbagliata, aveva diciott’anni. Nagel era alle elementari.

 

È considerato un osso duro con un carattere non facile. Macina una carriera strepitosa nelle banche bulgare e polacche che facevano parte del gruppo Unicredit e arriva a poca distanza dalla poltrona di amministratore delegato allora occupata da Federico Ghizzoni. Il Financial Times lo omaggia come «uno dei banchieri più rispettati nell’Unione europea», ma quando al vertice di Unicredit approda Jean Pierre Mustier forse capisce che è il momento di cambiare aria e se ne va al Credito Valtellinese. Da dove lo ripesca il governo Draghi. Il Monte dei Paschi è una bella rogna, e si guadagna meno di un terzo. Nel 2023 il suo stipendio è stato di 947 mila euro, contro tre milioni e fischia. Ma con quello che c’è in ballo la prospettiva è tornare a giocare la Champions. Quando accetta l’incarico al Monte magari su Mediobanca ha già fatto un pensierino, anche se difficilmente con un diverso scenario politico avrebbe avuto davanti a sé un’autostrada.

 

Cuccia diceva che le azioni non si contano ma si pesano. E a Mediobanca continuano a pesarsi. Grazie al peso delle azioni del patto di consultazione, in tutto l’11,87 per cento di una ventina di azionisti allo zero virgola fra i quali il più rilevante è il gruppo Mediolanum con il 3,49, Nagel è da quasi 18 anni il monarca assoluto, in un blocco chiuso di potere attorniato da dirigenti fedelissimi. Riuscendo a respingere ogni tentativo di ridimensionarlo. Il più consistente, a settembre del 2023. Ci sono in ballo le nomine del consiglio di amministrazione e gli eredi di Leonardo Del Vecchio che hanno in tasca quasi il 20 per cento delle azioni, contestano la conferma di Renato Pagliaro alla presidenza di Mediobanca. Pagliaro è stato direttore generale, con Nagel, dal 2003. E nel 2010 ha preso il posto di Cesare Geronzi alla presidenza. I Del Vecchio dicono che dopo 13 anni è ora di cambiare e insistono per un presidente indipendente. Senza successo. Finisce, secondo copione, con le riconferme di Pagliaro e Nagel.

 

Qualche giorno fa al blocco delle azioni che si pesano si sono aggiunte quelle di Federico Falck e Alberto Aspesi. Totale: 0,46 per cento. Ma il sistema delle azioni che valgono più per il peso che per il numero non può funzionare all’infinito. Soprattutto se chi la vuol mettere in discussione ha le spalle coperte dal governo. E se il peso delle azioni è sempre più leggero. Non c’è la Fiat, non ci sono i Pirelli, i Pesenti, i Ligresti. Il potere di Mediobanca oggi è rimasto concentrato nella sua partecipazione più importante, quella nelle assicurazioni Generali e nei suoi ricchi dividendi che ne alimentano gli utili. Tutto il resto appartiene ormai al passato, compreso lo stile del riserbo inaugurato da Cuccia, che non aveva mai concesso un’intervista. Una volta sull’aereo si trovò seduto accanto il giornalista di un settimanale economico, il Mondo, che lo tormentò per un’ora con le sue domande. Degnandolo appena di qualche sguardo, lui rimase muto come un pesce.

 

Il fondatore di Mediobanca andò in pensione quando aveva già da un pezzo superato gli ottanta, con l’assegno di un impiegato. Alla morte lasciò un conto corrente con 156.653 euro e un patrimonio di circa un milione. Sei anni dopo, l’attuale direttore generale (dal 2010) Francesco Saverio Vinci aveva maturato stock options per 17,5 milioni mentre Nagel vendeva azioni della banca per 16,1 milioni. L’anno scorso l’amministratore delegato di Mediobanca ha guadagnato 5,8 milioni. Sei volte lo stipendio di Lovaglio. Anche per quanto sopra una partita che qualche anno fa nessuno avrebbe mai sognato di poter giocare oggi è invece tutta aperta. Le argomentazioni contro l’offerta pubblica di Mps non sono infondate. L’ombra dei conflitti d’interessi in una scalata dove gli scalatori scalano sé stessi in un intreccio di rapporti e interessi si allunga inevitabilmente su un’operazione nella quale è impossibile non cogliere anche una venatura politica. La voglia matta del polo finanziario a trazione meloniana appare davvero irresistibile. Per non parlare delle rispettive dimensioni dei due contendenti, con qualche miliardo che balla. Al tempo stesso, la barricata di Mediobanca sembra eretta soprattutto per difenderne il gruppo dirigente e le sue prerogative, aggrappate all’unico bene (le Generali) di un valore che giustifica la scalata. Siamo alle solite, insomma. Chiunque prevarrà fra Nagel e Lovaglio, è netta la sensazione che gli ultimi a goderne saranno i risparmiatori.

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