Per capire che la società 3-i spa è un clamoroso buco nell’acqua non serve una laurea in scienze aziendali. Bastano i dati di fatto. Si chiama 3-i perché i suoi azionisti sono tre e iniziano tutti con la lettera "i". Inps, Inail, Istat. Pensate che fantasia. Qualcuno, all’origine, avrebbe già potuto ritenerla una partenza con il piede sbagliato. Eppure, a dispetto di un nome così banale, il progetto si presentava ambizioso. Ma troppo, per un’Italia nel quale il principale obiettivo delle burocrazie, meglio se controllate dai partiti al governo, è difendere sé stesse. Ragion per cui la società 3-i, che nel sito internet ufficiale ancora "in fase di implementazione" si definisce "un polo di riferimento per il Paese", è da tre anni sul binario morto. E ora, senza sapere che cosa farne e nell’impossibilità di chiuderla con più amministratori e sindaci che dipendenti, ecco la svolta. Cambiare quel nome sciatto e banale. Non più 3-i spa, bensì Indata Pa spa. Evviva.
La storia ha dell’incredibile. Siamo all’inizio del 2022, il Piano nazionale di ripresa e resilienza è appena decollato con i suoi 200 miliardi europei. Una delle missioni, forse la più significativa, è assicurare il salto tecnologico di una pubblica amministrazione stanca, inefficiente e obsoleta. Il ministro dell’Innovazione e della transizione digitale Vittorio Colao, per anni grande capo di Vodafone, è convinto che sia il momento giusto per un’operazione fino a quel momento impensabile: mettere insieme i più grandi cervelli informatici di cui dispone lo Stato per creare una poderosa software house pubblica. Mettere insieme gli apparati informatici delle amministrazioni pubbliche è un’idea assolutamente logica e per nulla originale, ma invidie e gelosie hanno sempre impedito che da teoria diventasse realtà. C’è però, all’inizio del 2022, il governo tecnico dell’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. E nessuno ha il coraggio di mettere il suo verbo in discussione. La legge che istituisce la società 3-i spa quindi passa l’esame del parlamento e il progetto si merita anche di finire nel Pnrr.
Basta però che Draghi faccia le valigie perché distinguo e rancori reciproci riprendano il sopravvento, sebbene il subentrato governo di Giorgia Meloni abbia deciso di mandare avanti il progetto. Ma solo sulla carta, come sarà chiaro ben presto. Alessio Butti, deputato comasco di Fratelli d’Italia, sottosegretario con delega all’Innovazione tecnologica che ha rilevato Colao, ci mette perfino la faccia. "Oggi portiamo a compimento, nei tempi previsti, un importante obiettivo del Pnrr. Con l’istituzione di 3-i creiamo un polo di riferimento per le pubbliche amministrazioni centrali, oltre che un centro di eccellenza nel panorama dei fornitori di servizi digitali per gli enti di tutto il settore pubblico", dice il 12 dicembre 2022, quando la società finalmente viene costituita dal notaio dopo una serie interminabile di rinvii.
Ma tra il dire e il fare, come afferma il proverbio, c’è una bella distanza. Intanto bisogna nominare i vertici. Assodato che tre dei cinque consiglieri sono espressione degli azionisti, la legge assegna al capo del governo la prerogativa di designare il presidente. Che però già c’è. È stato addirittura nominato prima che la società venisse costituita. Il suo nome è Roberto Lancellotti, ed è un consigliere dell’Inps. Perché lui? Perché l’Inps possiede il pacchetto più consistente di azioni: ha il 49 per cento, contro il 30 dell’Inail e il 21 dell’Istat. Ma agli altri soci non va bene. Qualcuno agita lo spettro di un possibile conflitto d’interessi. E comunque il governo è cambiato e il premier ha idee ben diverse.
La scelta di Giorgia Meloni cade su Claudio Anastasio. È l’inventore della "raccomandata elettronica", della quale però si sono perse le tracce. Restano invece quelle, indelebili, del marchio di fabbrica. Alla fine degli anni Novanta l’appassionato di informatica Anastasio guadagna una citazione nelle cronache per aver fondato la Mussolini internet, che gestisce il sito ufficiale "Mussolini". Passano gli anni e nel partito, Fratelli d’Italia, non gli mancano gli estimatori. La prima è Rachele Mussolini, sorella minore di Alessandra e consigliera FdI del Comune di Roma (la più votata) prima di passare a Forza Italia.
Il caso però vuole che Anastasio non riesca a resistere al richiamo della foresta. E nel discorso d’insediamento prenda a prestito le frasi con cui Benito Mussolini aveva rivendicato alla Camera nel 1924 la responsabilità politica dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Per cui il nuovo presidente appena nominato salta come un tappo di prosecco. Al suo posto arriva l’avvocato Gennaro Terracciano, come fosse l’ambulanza. Si assume lui l’onere di mandare avanti la baracca, che procede piuttosto faticosamente (per non dire che non procede affatto) mentre si arriva alla travagliata nomina del direttore generale. Stefano Acanfora, ex dirigente della Regione Lazio all’epoca dell’ex segretario Pd Nicola Zingaretti, la spunta su Stefano D’Albora, ex manager di Roma Capitale con Gianni Alemanno, ora dirigente di Sport e Salute.
C’è chi ricorda un rapporto di vecchia data fra il medesimo Acanfora e il potente sottosegretario alla presidenza di Fratelli d’Italia, Giovanbattista Fazzolari. Il quale reagisce sdegnato a quella che considera una bassa insinuazione minacciando querele. Ma è l’unico sussulto che indichi un segno vitale. Perché non succede più nulla. Anzi, una cosa accade. Se ne va pure il terzo presidente. Terracciano si dimette, avendo evidentemente ben altro da fare che stare dietro a un ectoplasma in forma di società per azioni pubblica. Al suo posto ne arriva un altro: Domenico Mastrolitto, direttore generale del Campus Bio-medico, policlinico nell’orbita dell’Opus Dei. E sono quattro. Quattro presidenti in tre anni, con in più un direttore generale, per una società di Stato che nessuno vuole. Nemmeno lo Stato.
Non ne è entusiasta, a quanto pare, la direttrice generale dell’Inps Valeria Vittimberga, lei sì amica di Fazzolari: come lui si è fatta le ossa (politiche) nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile missina da cui provengono tutti quelli che contano in Fratelli d’Italia. Non l’Inail di Fabrizio D’Ascenzo, cattedratico stimato dal ministro della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, il quasi cognato della premier. Nemmeno, per quanto se ne sa, l’Istat.
Penserete: su una cosa del genere non possono decidere loro. Vero. C’è una legge approvata dal Parlamento, cioè dai rappresentanti degli italiani, cui per Costituzione appartiene la sovranità. Verissimo. Ma non è la prima legge simile mai attuata. Si potrebbe ricordare che nel decreto "sbloccacantieri" del 2019 voluto dal ministro grillino Danilo Toninelli era prevista per velocizzare gli appalti la costituzione di una società pubblica denominata Italia Infrastrutture spa. Mai nata.
Certo, c’è anche un governo, e certamente conta più del presidente o del direttore di un ente pubblico. Non fosse altro perché quello è stato nominato proprio dal governo, e quindi ne deve seguire le direttive. Ma tale vicenda dimostra che sulla faccenda il governo Meloni non ha le idee chiare. O non ne ha affatto. Non è chiaro nemmeno chi abbia in mano il boccino. Fazzolari, il braccio destro della premier? Oppure Butti, titolare della delega sulla digitalizzazione? Boh.
La cosa più sensata sarebbe chiuderla qui, senza farsi ancora più male di quanto già non se ne sia fatto. Anche perché tenere in piedi questa roba non è gratis. E buttare dalla finestra anche un solo euro dei contribuenti non è carino. Però non si può fare, perché di mezzo c’è il Pnrr e pur senza considerare i soldi sarebbe una discreta figuraccia. Allora bisogna andare avanti in qualche modo. E si procede alla cieca.
Prima provano a cambiare missione, trasformando 3-i spa in una specie di agenzia dei dati. Ma non va. Poi cercano di trovarle una ragione di sopravvivenza collegandola a PagoPa, la piattaforma per i pagamenti della pubblica amministrazione affidata ad Alessandro Moricca, già collaboratore della “Voce del Patriota”, assai stimato da Fazzolari. Tentano infine di assegnarle il compito di "favorire l’interconnessione e la standardizzazione ai fini dell’interoperabilità dei sistemi operativi e delle banche dati delle pubbliche amministrazioni". Ma anche questa versione, che doveva comparire nell’ultimo milleproroghe, sfuma per ignoti motivi.
Così l’unica certezza è che la società cambierà nome. Si chiamerà Indata Pa spa, sempre a meno di qualche ripensamento in extremis. Un’altra sigla nella filiera sempre più affollata e confusa dell’informatica pubblica. Dove una sola regola viene osservata collettivamente: difendere il proprio orticello. E i risultati si vedono tutti.