L’ufficio istituito nel 2012 per i cento anni della Grande Guerra, conta oggi 14 impiegati e 15 consulenti retribuiti fino a 496mila euro annui, oltre a tre dirigenti e a una coordinatrice

In trentatré per decidere anniversari

In Italia la politica apre tutte le strade. In ogni direzione. E il caso di scuola, da qualunque prospettiva lo si osservi, è Giuseppe Valditara. Per tre anni, dal 2018 al 2021, è capo del dipartimento dell’Università, all’epoca accorpato con l’Istruzione. L’anno seguente si candida senza fortuna alle politiche con la Lega ma neppure il tempo di smaltire la trombatura e subito lo consola la nomina a ministro. Dello stesso ministero del quale era dirigente apicale.

 

Non è l’unico a trovarsi in questa situazione oggettivamente curiosa, lo sappiamo. Per esempio è ministro dell’Interno il prefetto Matteo Piantedosi. Prima di lui c’era la prefetta Luciana Lamorgese. E prima ancora la loro collega Annamaria Cancellieri. Per non parlare di altri casi, come quello del direttore generale del ministero dell’Agricoltura Mario Catania, promosso ministro dell’Agricoltura con il governo di Mario Monti. Perfino Marco Bussetti, ministro dell’Istruzione leghista del primo esecutivo di Giuseppe Conte, prima di approdare all’incarico governativo era nei fatti dipendente del medesimo ministero, in quanto dirigente scolastico in Lombardia.

 

Ma prima di ritrovarsi paracadutati ai vertici politici dello Stato erano tutti burocrati pubblici assunti per concorso che avevano raggiunto posizioni di responsabilità con le regole vigenti nelle rispettive amministrazioni. Valditara no. Anche lui è un dipendente pubblico, professore ordinario all’Università di Torino. Ma il suo mestiere è quello di politico. E fa il percorso al contrario. All’inizio del nuovo secolo è assessore all’Istruzione della Provincia di Milano, con Ombretta Colli presidente. Da lì al Senato con Alleanza nazionale il passo è breve: ci resta 12 anni e dà un bel contributo come relatore alla riforma di Mariastella Gelmini. Ma il suo cuore in fondo deve aver battuto sempre per la Lega e qualche anno dopo eccolo nell’entourage di Matteo Salvini. Da dove lo pesca, guarda caso, proprio Bussetti. Se la decisione sia farina del suo sacco o frutto di un suggerimento dall’alto, poco importa. L’ex senatore finiano scopertosi salviniano si ritrova in un amen alto burocrate dello Stato: capo del dipartimento dell’Università. Ma com’è possibile, penserete, diventare dirigente pubblico a quei livelli senza un concorso pubblico?

 

Da quasi un quarto di secolo c’è una regola che lo consente. Il comma 6 dell’articolo 19 del decreto legislativo 165 del 30 marzo 2001 è stato uno degli ultimi provvedimenti licenziati dal secondo governo di Giuliano Amato, con le Camere sciolte già da tre settimane. Quel comma permette di assumere, come alti dirigenti, estranei all’amministrazione per far fronte all’esigenza di professionalità particolari non presenti nell’apparato pubblico. Si dovrebbe trattare di incarichi a termine, e per un numero limitato. Non più del 5 per cento dei dirigenti di prima fascia e idem per quelli di seconda, diceva la versione originaria del decreto. Poi si è passati al 10 per cento. E ora, come racconta Gloria Riva a pagina 12, si naviga verso orizzonti ancora inesplorati alla faccia dei limiti imposti dalla legge. Il cui ideatore, l’ex ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini, l’aveva evidentemente pensata per uno scopo ben diverso da quello di garantire posti dirigenziali nel pubblico ad amici e sodali, quando non addirittura a parenti.

 

Ma l’Italia è il Paese delle buone intenzioni, dove ogni iniziativa nata per un obiettivo fatalmente fa raggiungere l’obiettivo opposto. Così un provvedimento concepito per modernizzare la pubblica amministrazione ingaggiando manager dal privato ben pagati è stato trasformato in un grimaldello per infarcire la macchina statale di fedeli dei partiti al governo, spesso anche dalle discutibili competenze, e senza passare per le forche caudine del concorso pubblico. Il che, in un determinato periodo, ha fatto lievitare a livelli inconcepibili le retribuzioni dell’alta burocrazia senza migliorare la qualità. Insomma, un clamoroso e totale fallimento. Peraltro nemmeno troppo irrispettoso della Costituzione, il cui articolo 97 prescrive, sì, che «agli impieghi pubblici si accede mediante concorso»; ma «salvo i casi stabiliti dalla legge».

 

E tanto basta perché negli anni i casi particolari si siano moltiplicati, anche fra chi il concorso pubblico l’aveva sostenuto e vinto, grazie a istituti come il distacco o il comando. Dei quali si è francamente esagerato, consentendo a dipendenti pubblici raccomandati di fare il doppio o triplo salto mortale. Incaricato dal capo dello Stato neoeletto Carlo Azeglio Ciampi di fare una due diligence della presidenza della Repubblica, Sabino Cassese scoprì che al Quirinale non si faceva un concorso dal 1963, eppure c’erano più di mille dipendenti. E siccome correva l’anno 2000, com’era entrata tutta quella gente in 37 anni senza procedure concorsuali?

 

Del resto, dice tutto a proposito di come si può sviluppare una carriera ai massimi vertici dell’amministrazione la storia di Marcello Fiori. Dirigente dell’Acea, la municipalizzata pubblica romana, viene chiamato al Comune di Roma guidato allora da Francesco Rutelli. C’è in ballo il Giubileo del 2000 e il quarantenne Fiori è veloce e motivato. Tanto che Guido Bertolaso ritiene di non poterne fare a meno anche alla Protezione civile. Fiori diventa così dirigente generale per decreto, in forza alla presidenza del Consiglio. Folgorato dal Cavaliere sulla via di Arcore, sarà responsabile dei circoli Forza Silvio e poi commissario di Forza Italia nelle Marche. Conservando sempre, beninteso, il posto di dirigente generale dello Stato. Ciò gli consentirà di occupare nel governo Draghi la poltrona di capo del dipartimento della Pubblica amministrazione per opera del ministro Renato Brunetta, già capogruppo di Forza Italia in Parlamento. Ora Marcello Fiori è direttore generale dell’Inail.

 

La verità è che quel decreto 165 del 2001 ha provocato un effetto domino nell’apparato pubblico, facendo crollare molti tabù. È passata ossia l’idea che i partiti, dopo aver completamente colonizzato le imprese pubbliche, potessero fare la stessa cosa anche nella pubblica amministrazione. Si spiega così un fenomeno manifestatosi sempre più invasivo e preoccupante. È quello della valanga di consulenze distribuite a chiunque, senza alcun rispetto per il concetto che il denaro di tutti non è il denaro di nessuno.

 

Sfugge del tutto alla logica del buon padre di famiglia l’esistenza a Palazzo Chigi di una struttura di missione per gli anniversari nazionali. Tenere il calendario delle ricorrenze irrinunciabili, tipo che il prossimo anno ne saranno passati 20 dall’ultima vittoria della nazionale di calcio ai mondiali. E pensare al da farsi, un compito da far tremare le vene ai polsi e soprattutto da giustificare un esercito di attendenti. La cosa nasce nel 2012 per preparare il centenario della prima guerra mondiale, ma poi nessuno ha il coraggio di metterci una pietra sopra, e i decreti si susseguono ai decreti per tenere in vita quella struttura di missione, con l’unica missione di ingigantirla sempre di più. All’inizio c’erano un coordinatore, tre dirigenti, sei impiegati e otto consulenti per una spesa autorizzata di 240mila euro. Ora siamo passati a 14 impiegati e 15 consulenti retribuiti fino a 496mila euro annui, oltre a tre dirigenti e una coordinatrice. Totale: 33 persone. Con la coordinatrice, Elena Guerri dall’Oro, non sgradita all’attuale maggioranza e fatta dirigente dello Stato grazie al famoso comma 6 dell’articolo 19. Il costo di questa macchina per tagliare il brodo non sarà lontano da un paio di milioni l’anno.

 

E già questo potrebbe bastare, se lo sconcerto non aumentasse dando una rapida occhiata all’elenco dei consulenti. Nel quale campeggia il nome dell’ex ministro dell’Istruzione leghista di cui sopra, Marco Bussetti, che terminata l’esperienza governativa è rientrato nell’apparato scolastico dal quale proveniva, ma con un significativo avanzamento. Adesso è direttore regionale dell’ufficio scolastico della Regione Veneto guidata dal leghista Luca Zaia, con il quale aveva firmato da ministro un accordo per la valorizzazione dell’insegnamento della storia veneta. E non sono certo i 47mila euro lordi annui previsti per il suo incarico alla struttura di missione degli anniversari a far pensare. Perché un dirigente pubblico retribuito anche come consulente dallo Stato, beh, non è proprio carino da vedersi.

 

Con lui c’è Riccardo Andriani (30mila euro), un tempo responsabile sport di Alleanza nazionale. Nonché, oggi, consulente del ministero dell’Ambiente (70.848 euro), dove regna il sottosegretario Claudio Barbaro, già missino a quattro ruote motrici e autore della prefazione del libro “Quelli della Balduina” sulla storia della sezione Msi (ora Fratelli d’Italia) del quartiere romano. Postfazione di Riccardo Andriani. Si occuperà dei nostri anniversari nazionali pure Stefano Tozzi, da quasi vent’anni consigliere municipale di Roma centro, per l’ex Msi. Candidato senza fortuna alle Europee del 2024 con Fratelli d’Italia ma penalizzato dalla posizione in lista meritava un piccolo indennizzo. E nella pletora di avvocati e commercialisti non ostili alla destra, ingentilita da guru di social media che vantano l’ideazione di un brand di gioielli, poteva mancare un esperto della comunicazione? Ecco allora Massimiliano Lucchesi, in passato all’ufficio stampa con delega alle relazioni esterne del ministro della Gioventù fra il 2008 e il 2011. Chi era il ministro (o la ministra, se non si offende)? Ma Giorgia Meloni, ça va sans dire…

 

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