Politica
25 agosto, 2025È nella bufera perla vicenda Almasri, ma si dice pure che sia lei il vero capo della Giustizia. Giusi Bartolozzi è legata a doppio filo a Carlo Nordio. Nel gioco delle parti tra magistrati e Palazzo
Ah, se gliele aveva cantate! Quel 27 maggio del 2020, alla Camera, Giuseppa Lara (detta Giusi) Bartolozzi si mostrava irrefrenabile. Infilzava senza pietà il ministro della Giustizia grillino, Alfonso Bonafede, reduce da un lungo intervento al question time, con una serie di stoccate. La più dolorosa: «Il ministro adesso rilancia progetti di presunta incompatibilità per i magistrati eletti a cariche politiche, mentre nulla dice, come dovrebbe, sulla incompatibilità di coloro i quali, pur non rivestendo ruoli politici di natura elettiva, svolgono incarichi a stretto contatto con la politica. Ma non è allora incompatibilità anche questa?».
A chi era diretto l’affondo di Giusi Bartolozzi, giudice della Corte d’Appello eletta deputata per Forza Italia? Forse a quei suoi colleghi senza più seggio parlamentare riparati in via Arenula con la scusa di dare supporto all’apparato ministeriale? Chissà. Fra i cento e più magistrati saldamente innestati nella macchina governativa ce n’era almeno una proveniente dal Parlamento: Doris Lo Moro, passata dal Partito democratico a Liberi e Uguali, che, dopo otto anni di sindaca a Lamezia Terme, cinque nel Consiglio regionale della Calabria e poi due legislature alla Camera e in Senato, aveva deciso di non ricandidarsi. E il ministro dem, Andrea Orlando, predecessore di Bonafede, l’aveva volentieri accolta al dipartimento Affari di giustizia del ministero. Tuttavia, i magistrati ex parlamentari in realtà sarebbero stati due, se Bonafede non si fosse opposto all’arrivo di Anna Finocchiaro, due volte ministra e 31 anni di fila fra Montecitorio e Palazzo Madama.
E si può stare certi che, al tempo di quella sua intemerata pubblica contro «coloro i quali, pur non rivestendo ruoli politici di natura elettiva, svolgono incarichi a stretto contatto con la politica», Giusi Bartolozzi sinceramente ignorasse che un giorno si sarebbe trovata nella stessa situazione da lei così criticata. Ma la politica è l’arte del possibile, per non dire che in questo momento storico la coerenza non sembra dote così popolare nel Palazzo.
Siciliana di Gela, giudice a Gela e quindi a Palermo, prima di approdare alla Corte d’Appello di Roma, eletta alla Camera in Sicilia e incidentalmente consorte dell’ex vicepresidente della giunta regionale siciliana, Gaetano Armao, è ritenuta più influente dell’attuale ministro Carlo Nordio.
Dopo le elezioni vittoriose del centrodestra, Giusi Bartolozzi segue Nordio al ministero. Due anni prima era stata lei, allora deputata componente dell’Antimafia, a volere il magistrato trevigiano alla commissione parlamentare come consulente. E quando Nordio si era dimesso per protesta con l’uscita del grillino Nicola Morra sulla presidente della Calabria, Jole Santelli, gravemente malata, Giusi Bartolozzi l’aveva difeso pubblicamente: «La commissione Antimafia ne esce completamente delegittimata».
Nel novembre 2022 il sodalizio si ricostituisce, anche se a ruoli formalmente invertiti. Ma non bisogna aspettare molto per capire che alla ex deputata forzista quel ruolo sta piuttosto stretto. Passa un anno e la coabitazione con il capo di Gabinetto, il magistrato Alberto Rizzo, è alla frutta. E lei lo soppianta, meritandosi rapidamente su qualche giornale l’appellativo (questo, sì, maligno) di «zarina» del ministero.
Per il deputato dei Verdi, Angelo Bonelli, «Giusi Bartolozzi è il vero ministro della Giustizia. Nordio è solo una comparsa: è lei che costruisce le strategie politiche e Nordio si limita a prenderne atto». Nello sconcertante episodio della liberazione dell’aguzzino libico Osama Almasri le frecciate dell’opposizione fanno parte del gioco. Ma questa non è una semplice frecciata. È l’innesco dei siluri che arrivano da tutte le parti. Mentre l’onda monta. Il Movimento 5 Stelle sostiene, «documenti alla mano», che «già il 19 gennaio le informazioni, il mandato di arresto, i documenti ufficiali erano in possesso degli uffici competenti del ministero. E soprattutto: la capo di Gabinetto sarebbe stata avvisata, sarebbe intervenuta, avrebbe parlato con funzionari e partecipato a una video-riunione con i servizi segreti».
Vedremo come finirà. Ma la vicenda per cui l’ex deputata Bartolozzi non è indagata, a differenza di Nordio e del suo collega dell’Interno, Matteo Piantedosi, è la spia della situazione venutasi a creare in via Arenula. Davvero curiosa, nonostante Nordio si ostini a ripetere che la sua capo di Gabinetto non avrebbe fatto altro che agire in seguito a suoi ordini.
Sullo sfondo di questa storia si delinea certamente l’anomalia di un ministero dove non è chiaro chi manovri realmente le leve del potere. Ma che è il risvolto di un’altra anomalia, ben più profonda e mai risolta: quella del rapporto fra magistrati e politica. Altro che l’inutilissima riforma costituzionale per la separazione delle carriere, che, come sanno tutti, sono nei fatti già abbondantemente separate. Diversamente, per dirne una, gran parte dei processi penali (fino al 40 per cento) non si concluderebbe con l’assoluzione degli imputati.
Vero è che nelle ultime elezioni politiche generali la presenza dei magistrati si è drasticamente ridotta. Nelle undici legislature della cosiddetta Prima Repubblica vennero eletti complessivamente 125 magistrati, con una prevalenza di tre quarti dei partiti di governo, a cominciare dai 72 giudici eletti con la Dc. Nelle otto legislature della presunta Seconda Repubblica sono stati invece 128, con una prevalenza del centrosinistra: 60 per cento circa. Ma anche con una flessione ormai apparentemente inarrestabile. Dai 18 magistrati eletti nel 2013 si è scesi a quattro nel 2018 e poi a tre, per giunta tutti pensionati: Nordio di Fratelli d’Italia, Simonetta Matone della Lega e Roberto Scarpinato del M5S.
La ragione ha a che vedere con i limiti sempre più rigidi al rientro dei giudici alla fine del mandato parlamentare. Anche qui, però, non sono mancati i colpi d’ingegno per aprire un po’ di paracadute ai poveri magistrati privati del seggio.
Prendete, per esempio, l’incompatibilità denunciata da Giusi Bartolozzi nel 2020, giusto un paio d’anni prima di viverla in prima persona. Ossia quella di chi non è stato più eletto, ma continua ad avere incarichi a stretto contatto con la politica, continuando di fatto ad avere un ruolo politico mascherato. Sapete come l’ha risolta la legge 71 del 2022 che porta il nome della ministra Marta Cartabia, approvata poche settimane prima della fine della legislatura? Facilissimo: rendendo compatibile l’incompatibilità.
L’articolo 19 prevede che i magistrati ex parlamentari nazionali ed europei, ex consiglieri regionali, ex presidenti di Regione, ex sindaci o ex consiglieri comunali siano «collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o, per i magistrati amministrativi e contabili, presso la presidenza del Consiglio». Cioè, esattamente «a stretto contatto con la politica», per citare sempre la capo di Gabinetto di Nordio in una vita precedente. In alternativa, dice sempre l’articolo 19, i magistrati usciti dalla politica possono andare negli organi di autogoverno, quelli che dovrebbero sancire l’indipendenza delle magistrature.
E proprio così hanno fatto i due magistrati eletti nel 2018 e non riconfermati. Giusi Bartolozzi è al ministero della Giustizia, mentre Cosimo Ferri di Italia Viva è vicepresidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Va bene che la cosa in teoria non li riguarda, perché l’articolo 19 si applica ai magistrati il cui incarico politico sia iniziato dopo l’entrata in vigore della legge. Ma che male c’è a portarsi avanti sul lavoro?

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