Politica
10 settembre, 2025Aziende e sbocco in Medio Oriente, gruppi di amicizia: i motivi che spingono Giorgia Meloni e i suoi a essere così timidi con Bibi Netanyahu nonostante la mattanza di Gaza
Qualcosa si smuove. Esatto: si smuove. Con fatica sovrumana. Con discrezione pedante. Qualcosa si smuove nei partiti di maggioranza e soprattutto nel governo italiano di Giorgia Meloni nelle relazioni con il governo israeliano di Benjamin Netanyahu che non smette, immune dal diritto internazionale e persino dalla pietà, di sparare, di affamare, di uccidere a Gaza. Quel «qualcosa» che si smuove non è semplice da rintracciare perché «nelle pagine resta sempre qualcosa di non detto (Cesare Pavese)», allora ci siamo chiesti perché il governo italiano di Meloni – per quali trascorsi, quali contratti, quali utilità – non può permettersi di guastare davvero le sue relazioni istituzionali con il governo israeliano di Netanyahu, seppur a mezza bocca, fra sospiri e sussurri, tutti o quasi non reggono più questo macigno emotivo.
Un diplomatico di acume e carriera ci introduce il discorso, e fa subito una annotazione per indicare una malformazione geopolitica: il governo Meloni è limitato, se non proprio bloccato nei confronti di Tel Aviv. Per ragioni esterne e interne. Esterne. Il ritorno di Donald Trump ha garantito un supporto totale (e risorse costanti) a Netanyahu; di conseguenza per il governo Meloni, che vanta un rapporto «speciale» con la Casa Bianca, è assai complicato rompere le linee, dirazzare, protestare. Interne. La platea di consensi/elettori che contestano Israele è storicamente ad appannaggio del centrosinistra, lo è ancora più spiccatamente in questo periodo, invece nel centrodestra – Forza Italia per tradizione, Lega di Matteo Salvini per ambizione, Fratelli d’Italia per emulazione – si contendono il ruolo di interlocutori/referenti della comunità ebraica e affini. Non è una coincidenza che le organizzazioni istituzionali di amicizia Italia-Israele siano guidate da esponenti del centrodestra. Il senatore Marco Scurria (Fdi) è il presidente italiano di “Transatlantic Friends of Israel”, ovvero un gruppo interparlamentare e interpartitico «dedicato all’ordine postbellico di sicurezza e cooperazione transatlantica conferitoci da leader visionari americani ed europei. Siamo uniti dalla convinzione che Israele, l’unica democrazia liberale del Medio Oriente, debba essere considerata parte integrante di questa vitale architettura di sicurezza politica ed economica». Scurria ha aperto la sezione in Italia il 31 maggio ’23, cioè prima dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre ’23 che ha scatenato la feroce reazione di Tel Aviv, questa postilla per dire che molti fatti sono accaduti da quel 31 maggio, ma Scurria assicura che nessun aderente dei trentacinque ha ritirato la partecipazione oppure, silente, si è disimpegnato. Anzi il senatore annovera nel suo gruppo colleghi di maggioranza e di opposizione con le eccezioni di Movimento Cinque Stelle e di Alleanza Verdi Sinistra. Qualche dettaglio: Lia Quartapelle e Piero Fassino del Partito democratico; Elena Bonetti ed Ettore Rosato di Azione; Simonetta Matone e Paolo Formentini della Lega; Deborah Bergamini e Andrea Orsini di Forza Italia; Antonio De Poli e Lorenzo Cesa dell’Unione di Centro; Giulio Terzi di Sant’Agata e Lucio Malan di Fratelli d’Italia. L’ultimo incontro si è tenuto a giugno, spiega Scurria, quando «ci siamo ritrovati nella lista di proscrizione del nuovo partito comunista». Viceversa, sono più sporadiche le attività del gruppo di collaborazione della Camera con gli omologhi israeliani della Knesset. Come previsto da un protocollo sottoscritto il 6 ottobre 2009, il gruppo è composto da sei deputati in rappresentanza dell’intero emiciclo. Per la seconda volta è presieduto dal leghista Formentini, il responsabile della politica estera del partito di Salvini e ne fanno parte Orsini (Fi), Stefano Giovanni Maullu (Fdi), Giuseppe Provenzano (Pd), Alfonso Colucci (M5s). Lo scorso anno il gruppo ha ricevuto una delegazione dei parenti degli ostaggi israeliani di Hamas. Quest’anno, a maggio, c’è stato un solo appuntamento di «coordinamento» della porzione italiana. L’ex senatore forzista Malan, oggi capogruppo di Fdi a Palazzo Madama, segue due temi con passione più o meno equivalente, Taiwan e Israele, e difatti da tempo è presidente del gruppo parlamentare di amicizia con Tel Aviv. Le esternazioni in difesa di Israele, dopo che il governo ha cominciato cautamente a dissentire, si sono ridotte assai, dunque a Malan non rimane che scovare similitudini e connivenze tra le opposizioni e Hamas. È un lavoro sfiancante. E mentre Formentini e Malan non parlano di Gaza o parlano di altro, in Forza Italia ci si esprime con chiarezza anche sul governo di Netanyahu. Lo ha fatto la vicecapogruppo Bergamini alla vigilia dell’occupazione finale su Gaza: «Una nuova offensiva su Gaza e l’ipotesi di ulteriori insediamenti in Cisgiordania trovano la nostra contrarietà».
Il sempre loquace Antonio Tajani, segretario nazionale di Forza Italia nonché ministro degli Esteri, non è dotato di altrettanta risolutezza per le ragioni esterne e interne di cui sopra. Il governo Meloni ha bisogno di una autorizzazione, a essere cattivi, o di una copertura, a essere realisti, per bacchettare Tel Aviv. Emblematico quanto successo un paio di mesi fa.
All’Angelus del 20 luglio, dopo l’attacco a una parrocchia cattolica di Gaza, papa Leone XIV è intervenuto con la sua pacata durezza: «Chiedo nuovamente che si fermi subito la barbarie della guerra e che si raggiunga una risoluzione pacifica del conflitto. Alla comunità internazionale rivolgo l’appello a osservare il diritto umanitario e a rispettare l’obbligo di tutela dei civili, il divieto di punizione collettiva, di uso indiscriminato della forza e di spostamento forzato della popolazione». Il giorno dopo, il ministro Tajani ha preso letteralmente in prestito l’invettiva di Robert Francis Prevost con dichiarazioni di inusitata asprezza: «Siamo contrari all’isolamento, alla deportazione della popolazione palestinese. I palestinesi hanno la loro terra, hanno diritto di avere un loro Stato, che deve riconoscere Israele e che deve essere riconosciuto da Israele. Facciamo nostre le parole di Papa Leone». E poi lo stesso Tajani ha apposto la sua firma sotto un appello internazionale con la Francia e senza la Germania: «Noi ministri degli Esteri, profondamente turbati dalla catastrofe umanitaria in corso, chiediamo un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente».
Per Salvini e la Lega la disciplina è ferrea, neanche un soffio contro Netanyahu. Il ministro dei Trasporti ha consolidato l’amicizia con Bibi in questa legislatura, a febbraio era a stringergli la mano a Gerusalemme e nella città santa per tre religioni ha annunciato di voler «rafforzare l’intesa» fra la sua Lega e il partito Likud. Le posizioni in Fdi sono più varie, e Meloni non le ignora. Per i diplomatici l’accusa della presidente del Consiglio dal palco di Comunione e Liberazione – «Israele è andata oltre» – ha segnato uno spartiacque nella dialettica del centrodestra. Adesso i parlamentari e i ministri si sentono legittimati a censurare il governo di Tel Aviv quando la coscienza si fa rovente, ma permane la consapevolezza che in fondo, non contando nulla per le dinamiche internazionali, è preferibile dissentire tacendo. Quel che ci compete, riflette una deputata forzista, è curare i bambini di Gaza, aiutare le famiglie, spedire pacchi di cibo. Una erosione dei rapporti con il governo di Netanyahu potrebbe compromettere alcuni delicati interessi di Stato. Il governo Meloni è favorevole alle sanzioni individuali ai coloni «violenti» – le aveva adottate anche l’America di Joe Biden – e però non potrà infastidire mai direttamente le aziende israeliane o l’esecutivo di Bibi né con atti simbolici né con azioni concrete. Perché per Palazzo Chigi, vale la pena ribadirlo, Israele è fondamentale, per la protezione nazionale, per i servizi segreti, è la porta spalancata sul Medio Oriente.
Il controverso, spesso demonizzato, accordo di collaborazione per la cybersicurezza (precedente al 7 ottobre ’23) rientra in questo catalogo. Come l’espansione di Sparkle, la società dei cavi sottomarini in fibra ottica, delle comunicazioni e degli archivi digitali, peraltro di recente tornata di proprietà statale con il ministero dell’Economia azionista di controllo. Il progetto “Blue and Raman”, per collegare Milano e Genova a Palermo proseguendo fino a Israele per raggiungere il Golfo Persico e arrivare in Oman e in India, è stato rallentato dalla guerra e soltanto a febbraio il governo israeliano ha acconsentito la posa dei cavi nelle sue acque territoriali. Sparkle ha una sede a Tel Aviv e, attraverso la sua infrastruttura, gestisce la gran parte del traffico internet israeliano. La delicatezza del tema è talmente palmare che da sei anni il presidente è Alessandro Pansa, ex prefetto al vertice della Polizia e del Dipartimento che coordina le agenzie di intelligence.
Del valore di Israele ne è perfettamente consapevole il sottosegretario Alfredo Mantovano che, non a caso, ha la delega ai servizi segreti. Il valore si misura con la qualità, sebbene la quantità degli scambi commerciali – e di materie prime, in special modo – non ha subito contraccolpi con la guerra. Gli scambi di Italia e Israele, in ingresso e in uscita, includono anche la Striscia e la Cisgiordania. Com’è noto l’Italia non ha contatti diretti con Gaza e Ramallah, li media Tel Aviv. I dati più aggiornati arrivano al semestre ’25. Importazioni di merci da Israele: 1,2 miliardi di euro nel 2022; 0,95 miliardi nel 2023; 1 miliardo nel 2024; crescita del 2,6 per cento nel 2025. Costante. Esportazioni di merci verso Israele: 3,5 miliardi di euro nel 2022; 3,3 miliardi nel 2023; 3,3 miliardi nel 2024; crescita del 4,2 per cento nel 2025. In aumento.
Le merci più scottanti sono le armi. Dopo il 7 ottobre ’23 il governo italiano non ha più concesso la vendita di materiale bellico all’esercito di Israele, ma non ha interrotto le commesse passate. Pare. Su questo il governo si è comportato con ambiguità. Centri studi, riviste di settore, associazioni pacifiste, e va citato Archivio Disarmo, denunciano che, ancora lo scorso anno, sono sbarcate in Israele armi “made in Italy” per diversi milioni di euro. Le stime non sono granitiche e le cifre non sono enormi, ma il governo Meloni non è riuscito a imporre un blocco totale. Al contrario, l’Italia acquista materiale bellico da Israele, diventato il secondo fornitore: «Le 517 importazioni – si legge nella relazione – valgono 743 milioni di euro, di cui il 24,76 per cento proviene dagli Stati Uniti, mentre il 20,83 da Israele». Metà del fabbisogno militare italiano proviene da Donald e Bibi. Finché comandano gli amici e gli amici degli amici, il governo Meloni rimarrà una comparsa impacciata della Storia. Sì, non si smuove. Niente nuove.
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