
Contro questa tesi fu osservato come il pianoforte non fosse uno strumento antico quale, ad esempio, il violino che, a parte le moderne corde metalliche, è materialmente quello che impugnava Tartini.
Il pianoforte è uno strumento in continua evoluzione, tanto nella sua costituzione fisica quanto nell’uso che i compositori ne hanno fatto, da Clementi al jazz. E poi, venendo a oggi, per quanto riguarda il mercato, ne ha perduto sì in Europa (anche se nei conservatori i corsi pianistici sono fra i più seguiti) ma va bene negli Stati Uniti e si è aperto un grande spazio in Estremo Oriente.
Massimo protagonista di questa costante rinascita e importanza del pianoforte nella vita musicale della nostra epoca, con sessant’anni di attività di cui quasi 55 documentati da più di quaranta milioni di dischi venduti e con le sue esperienze di direttore, oltre che delle grandi orchestre occidentali, in Giappone e Australia, è senz’altro Vladimir Ashkenazij.
Prossimo agli ottanta anni che compirà il 6 luglio e che celebrerà con l’uscita di due pubblicazioni che lo vedono protagonista (un doppio album con le Suite francesi di Bach e un cofanetto in 46 cd e due dvd dedicato alle sue registrazioni di concerti con orchestra “The complete piano concerto recordings”), si concede in esclusiva all’Espresso nella sua casa di Pura, nel Canton Ticino.
Esordiamo chiedendogli se è vero che questa abitazione fu, precedentemente, dell’illustre collega Arturo Benedetti Michelangeli. «Sì, per alcuni anni ci visse come affittuario», precisa Ashkenazij. «Poi si trasferì a un centinaio di metri poco distante da qui, sempre su questa stessa strada».
Quando gli chiediamo se lo ha mai conosciuto personalmente, ha un sobbalzo come se parlassimo di una qualche entità soprannaturale: «Per me lui era... un Dio! Lo ammiravo immensamente. Era un artista eccelso. Purtroppo era impossibile averci relazioni strette. Ma è sempre stato molto gentile nei miei confronti».
Cogliamo la palla al balzo per chiedergli della sua prima importante affermazione internazionale in un concorso quando, nel 1955, arrivò secondo al Premio Chopin di Varsavia. È vero che proprio Benedetti Michelangeli, membro della giuria, rifiutò che gli fosse assegnato il secondo premio invece del primo?
«Le cose andarono in questa maniera», ci spiega. «Nel primo e secondo turno della competizione suonai praticamente tutto il repertorio di ballate, studi e scherzi di Chopin, e risultai sempre primo. Poi fu la volta del terzo turno, che prevedeva l’esecuzione di un concerto per pianoforte, che non ebbi occasione di preparare bene in Russia per via della limitata disponibilità di un’orchestra. Così al terzo turno non arrivai primo e i membri polacchi della giuria, che costituivano la maggioranza, furono ben contenti di assegnare il premio più importante a un loro connazionale (Adam Harasiewicz, ndr). In seguito venni a sapere che all’interno della giuria l’inglese Harold Craxton e appunto Benedetti Michelangeli, ritenendo che avessi diritto al primo premio, si rifiutarono di firmare per il secondo». Ma nel firmamento pianistico di Ashkenazij non c’è solo Michelangeli.
Un altro punto di riferimento importante nella sua carriera, probabilmente il modello della sua giovinezza, fu Sviatoslav Richter. «Una persona totalmente devota alla sua arte. L’assoluta onestà, la quasi fanatica identificazione con la sua vocazione, erano impressionanti. È difficile trovare artisti di una tal fatta: Alfred Brendel è uno di questi», ci disse in una precedente intervista.
Con il Maestro continuiamo dunque un viaggio a ritroso nel tempo. Gli chiediamo della sua famiglia di origine. «Mia madre era russa (dice scandendo bene le parole, ndr) e mio padre ebreo. Mio nonno materno era maestro di coro della chiesa ortodossa. Mio padre, per quanto in gioventù avesse seguito un corso di studi di musica classica, divenne un pianista di musica leggera di buon livello. Fu però grazie a mia madre che ricevetti le prime lezioni di musica da una insegnante, perché aveva notato in me una certa inclinazione musicale, il mio totale coinvolgimento emotivo e mentale quando ascoltavo mio padre esercitarsi alla tastiera».
Il padre David era nato a Nizhnij-Novgorod e alcuni suoi amici, che ne avevano apprezzato le qualità musicali, gli consigliarono di lasciare la provincia per recarsi nella capitale. A Mosca gli Ashkenazij arrivarono prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale, per poi ritornarvi dopo l’evacuazione dovuta all’avanzata nazista, agli inizi del 1944. «Fu un periodo molto duro. Mio padre continuò la sua attività di pianista di musica leggera ed era molto richiesto. Quando avevo sei anni anche lui si rese conto che avevo del talento e ne rimase stupito. Poiché ero immerso nella musica di Bach, Beethoven e Rachmaninov, si sentì in un certo senso “umiliato” dal fatto che suo figlio suonasse le opere di quei grandi compositori che lui aveva cercato di comprendere appieno ed eseguire senza riuscirvi. Riteneva che avessi un atteggiamento di condiscendenza, di superiorità rispetto alla sua attività d’interprete di musica leggera. Ma io non potevo farci nulla, piccolo com’ero. Però quando cominciai a essere un artista conosciuto, vincendo premi e concorsi, divenne orgoglioso di me».
A sei anni, a Mosca, iniziò a studiare alla Scuola Centrale di Musica con Anaida Sumbatyan, di origine armena. Un rapporto durato dieci anni che fu coronato dal secondo premio al Concorso Chopin di Varsavia.
Furono importanti anche gli studi con Boris Zemlianskij, assistente di Lev Oborin, che lo preparò sia per l’occasione polacca, che l’anno seguente per il premio Regina Elisabetta di Bruxelles, che Vladimir vinse. Entrò poi al Conservatorio di Mosca e lì, insieme a Zemlianskij, ebbe come insegnante Lev Oborin. «Zemlianskij era una persona totalmente dedita alla musica, modesto, che non cercava alcuna gloria né tornaconto personale. Oborin non ha avuto la stessa importanza dei miei primi due insegnanti. Era un interprete, suonava spesso e molto bene (anche con il violinista David Oistrakh, ndr), ma non era molto interessato all’insegnamento».
Quando, nel 1963, Ashkenazij scelse di trasferirsi in Occidente, aveva ventisei anni e la sua fama, considerando pure la vittoria al Premio Ciaikovskij di Mosca del 1962, era consolidata. «Ormai avevo già assorbito tutto quanto la Russia era in grado di offrirmi. Ed era molto. Quando arrivai in Europa, per quanto l’eredità culturale del mio paese avesse una forte connotazione, essenzialmente emotiva, mi resi conto che avevo ancora molto da apprendere a livello spirituale. Soprattutto attraverso il confronto con le esperienze e gli atteggiamenti verso la vita, gli occidentali erano molto diversi dai russi, in quel momento storico cittadini dell’Unione Sovietica comunista. Non ci misi molto tempo a riconoscere che anche la mia cultura musicale, come l’arte dell’interprete, avevano bisogno di svilupparsi ulteriormente in direzioni diverse rispetto a quanto avevo appreso fino a quel momento».
Del resto fin da giovane Ashkenazij dette prova d’indipendenza, scegliendo di non studiare con il grande teorico della scuola russa, Heinrich Neuhaus. In proposito dichiarò: «In Occidente è ancora vivo il fascino della maniera russa, cioè un modo di suonare molto libero. Ma in certi tipi di musica questo approccio è controproducente. Una cosa che mi piace del balletto russo è che non sempre i danzatori eseguono i loro passi a tempo con la musica. Essi praticano una sorta di rubato (un lieve ritardo o un lieve anticipo) nei loro movimenti. Questo funziona sul palcoscenico, non altera il significato espressivo alla base del balletto. Ma nel modo russo di interpretare la musica un tale atteggiamento può essere nocivo. In Mozart, in Beethoven o in Bach non c’è nessun bisogno di prendersi delle grandi libertà. Secondo me un’interpretazione dovrebbe costruirsi a partire da quanto c’è nella musica, non tanto dalla preoccupazione di essere liberi».
A questo punto è inevitabile chiedergli se esiste ancora, nel terzo millennio, la leggendaria scuola pianistica russa. «Al giorno d’oggi il mondo è sempre più unito», riflette. «È a causa dei contatti sempre più frequenti fra i diversi paesi, che le singole particolarità nazionali vengono meno». Perché un tempo, ribadisce Ashkenazij, in Russia c’era l’idea che compositori come Bach, Mozart e Beethoven avessero delle connotazioni stilistiche diverse dal colore e dalla ricca e inimitabile immaginazione musicale russa. «Per fortuna negli anni Cinquanta arrivarono da noi interpreti come Van Cliburn, un americano che suonava Rachmaninov meglio di qualsiasi russo contemporaneo. Ora nei conservatori del mio paese d’origine la mentalità è molto più evoluta, adeguata alla nostra epoca cosmopolita».
Ma torniamo ai suoi trionfi occidentali. Uno dei grandi direttori protagonisti con Ashkenazij della “Complete Concerto Recordings” è certamente Georg Solti. «Un interprete che ho sempre molto apprezzato.
Era un piacere suonare con lui. Era inoltre un musicista molto devoto alla sua arte, una persona estremamente professionale e da un punto di vista umano assai caloroso. Ricordo quando incidemmo insieme i cinque concerti di Beethoven con la Chicago Symphony: un complesso veramente magnifico, formato da elementi disponibili, di grande gentilezza. Ma sa, di solito i musicisti delle grandi orchestre sono sempre molto generosi, perché sanno di aver raggiunto il massimo che potevano, e sono così consapevoli e grati del loro destino che amano condividerlo con gli altri artisti».
Prendendo spunto dalla prossima uscita delle Suite francesi di Bach, ricordiamo che Ashkenazij ha sempre lodato le interpretazioni rivoluzionarie che di queste pagine ha offerto Glenn Gould. Verrebbe da pensare che potrebbero averlo ispirato. «Ascoltai Gould la prima volta che venne a Mosca, ma in quella occasione non lo incontrai personalmente. Il concerto fu sensazionale, magnifico e rimasi, naturalmente, ammirato dal suo modo di suonare. Poi, una volta che ero a Toronto, cercai di incontrarlo e lui venne all’appuntamento. Rimanemmo a parlare di musica un paio d’ore. Ebbi l’impressione di conoscerlo da sempre. Devo però dirle che non l’ho preso a modello di riferimento. Ascolto spesso grandi musicisti per comprendere il loro modo di pensare e ciò che vogliono trasmettere. Potrei essere affascinato, in via di principio, da una certa prospettiva, da una visione musicale, ma rimarrebbero sempre alcuni dettagli che sono diversi da come li intendo io. Insomma, per quanto mi riguarda l’influenza delle grandi personalità musicali può esserci, ma avviene sempre in modo discreto e mai sostanziale».
Nella storia della musica c’è qualche direttore d’orchestra con cui avrebbe voluto suonare? «Certo, ho ammirato direttori e musicisti del passato, ma per me il contatto umano è fondamentale. Ecco, forse mi sarebbe piaciuto incontrare Furtwängler, che è stato un formidabile interprete di Beethoven. Ma magari il rapporto personale non sarebbe stato altrettanto positivo».
Negli ultimi anni, anche a causa di qualche problema legato all’artrosi, Ashkenazij si è sempre più consacrato alla carriera di direttore d’orchestra, confermandosi, con le sue scelte, un uomo libero e disinibito. Con i suoi concerti e i suoi dischi ha contribuito a rilanciare l’opera di compositori ritenuti - adornianamente - démodé, come Sibelius, Rachmaninov o Respighi. L’approccio è stato diverso rispetto a quello del pianista? «Le devo confessare che l’orchestra sinfonica è stata il mio primo amore e ho abbracciato la carriera sul podio a poco a poco, con naturalezza. In definitiva creo musica, col pianoforte e con l’ensemble, e trovo che la differenza fra un modo o l’altro sia solo tecnica».
Gli chiediamo, infine, se esiste un’interpretazione assoluta, definitiva, di un dato spartito, come sostiene a esempio il suo amico Daniel Barenboim. «Non ho mai applicato l’aggettivo “perfetto” ad alcuna delle mie interpretazioni. Che cos’è, in definitiva, la perfezione? È una definizione inutile nella musica. Si possono eseguire bene alcuni passaggi, si può solo sperare di essersi identificati quanto più possibile con l’idea che un compositore aveva di un suo determinato pezzo. Qualche volta ci si riesce, altre no».