La bomba alla Banca dell'Agricoltura. La morte di Pinelli in questura. Il commissario di polizia ammazzato tre anni dopo, «vittima anche lui». E il clima di violenza degli anni tra il '69 e il '73. Abbiamo visto insieme a Dario Fo il nuovo film su piazza Fontana

Alla fine, dopo due ore di visione a casa sua diventate quattro perché quasi a ogni scena fermavamo il dvd "not for commercial use" fornito da RaiCinema per commentare un dialogo, un fatto, una battuta, un taglio di luce, Dario Fo fa segno di sì con la testa e dice: "Che il commissario Calabresi non fosse nella stanza quando Pinelli precipitò dalla finestra del quarto piano della Questura, Franca e io lo abbiamo saputo durante il processo Calabresi-Lotta Continua, ce lo hanno assicurato gli avvocati del giornale. Sono andato in crisi, per questo. Era già uscita la prima versione di "Morte accidentale di un anarchico", la rappresentavamo ogni sera, al termine di ogni udienza gli avvocati ci informavano dei dettagli che emergevano e delle infinite contraddizioni dei poliziotti chiamati a deporre, e io toglievo e aggiungevo battute, riscrivevo al volo parti del copione. Tre edizioni del testo, sono uscite...".

È il passaggio più delicato e difficile, questo sul commissario ucciso il 17 maggio '72, due anni e mezzo dopo la bomba di piazza Fontana del 12 dicembre '69, l'arco dei fatti ricostruito da Marco Tullio Giordana in "Romanzo di una strage". Perché fa i conti con una storia forse oggi caduta nell'oblio ma "mai finita, tutt'altro che "successa allora"", che ha invece marchiato i decenni a venire attraversando le vite di due o tre generazioni.

A ogni appuntamento, Dario Fo e Franca Rame c'erano. Come in uno specchio, non c'è un fatto narrato nel film che non rimandi a un ricordo, un incontro, un episodio della loro vita, un testo teatrale scritto e cento volte recitato. Al clima di quegli anni, alle sue durezze, esasperazioni, speranze, violenze, bombe, trame, aggressioni.

Fin dalla prima scena dopo i titoli di testa, Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, diverbio sull'uso delle "bombette" tra Giuseppe Pinelli il ferroviere e Pietro Valpreda il ballerino: "Ci sono stato, in quel circolo. Un dibattito, mesi prima della strage, volevo capire chi diavolo fossero. Uno di loro pontificò sulla situazione sacrificale cui sempre nella storia gli anarchici si erano consegnati, isolandosi ed esponendosi alla reazione del potere. Giusto, ma retorico, enfatico e gli altri ironizzarono su dove l'aveva scopiazzato, quel discorso". Scena del corteo studentesco per le vie di Milano: "Ah, noi facevamo di continuo spettacoli nelle fabbriche occupate, tra gli studenti cresceva sottotraccia il movimento che sarebbe esploso di lì a qualche mese, era gente in gamba, non tanti piccoli Lenin come in seguito".

Il funerale di Pinelli: "Noi stavamo lì (ora è Franca Rame che ricorda, ndr). Ma eravamo molti di più di quanti si vedono nel film". Dialogo fra due manovratori dei Servizi, "Che si fa della compagnia cantante degli anarchici? La si lascia cantare": "Vero! È esattamente così! Avevano già in ordine tutti i personaggi, pronti a essere adoperati e gestiti, ciascuno adatto a figurare in una certa azione, magari inventata. Intanto scrivevano il copione. Strage di Stato, questo fu: non c'è verità più precisa che si possa oggi ripetere!".

È così per ogni passaggio, scanditi nel film da titoletti. La strage è neofascista? Dario Fo ci ha scritto nel '72 "Pum pum, chi è? La polizia". La morte di Feltrinelli a Segrate? "Traliccio di Stato", stesso anno. L'assassinio Calabresi? "Marino libero, Marino è innocente!", del '98... È un bel lavoro questo di Giordana, dirà Fo a visione conclusa, "teso, ben recitato, narrato col distacco di chi non si lascia prendere dalla superficie dei fatti". Senza effettacci, anche: la bomba la si vede esplodere dall'esterno, la morte di Pinelli la leggi sul volto di Calabresi in un altro ufficio, quella di Calabresi dal viso di sua moglie Gemma mentre lava i piatti.

"Quei tagli di luce dall'alto dietro il soggetto rendono l'angoscia dei tempi", spiega chi come lui per raccontare in chiave di sarcasmo ha bisogno di solarità e in scena la luce non l'ha usata mai per suggerire disperazione. "Soprattutto, è ben chiarito che i vertici di polizia e carabinieri e servizi cosiddetti deviati sanno già tutto fin da prima che accada, sanno della macchina del terrore messa in moto, dei neofascisti veneti, di Delle Chiaie, dei piani di Junio Valerio Borghese... I giovani perderanno magari qua e là il filo tra i vari personaggi, ma questo film li farà riflettere". Peccato soltanto la coda sull'ipotesi della doppia bomba, una anarchica dimostrativa e una fascista vera, o una fascista debole e una stragista da settori oltranzisti di Nato, Usa, forze armate italiane e neofascisti veneti: "Rischia di confondere le idee". E non si dice che, due giorni prima di essere ucciso, a Calabresi venne tolta la scorta, "come scrivo in "Marino libero"".

Il film, però, sono loro due, Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi. Il ferroviere anarchico e il commissario della Squadra politica. Interpretati al meglio da Pierfrancesco Favino e Valerio Mastandrea, sono i due eroi: il termine è del regista e della produzione Cattleya. "Personaggi autentici, sì. Parlo da autore e da sceneggiatore. Se nelle altre figure c'è a volte qualche sfasatura, loro due sono disegnati benissimo, con linearità, senza retorica. In entrambi c'è coerenza di comportamento e di dialogo. Fedeli? Non saprei, non ho conosciuto né Pinelli né Calabresi. Ma li sento veri, rappresentati nella loro dimensione umana. I dialoghi di cui c'è documentazione sono corretti, lo so perché ho studiato per anni le carte, quelli ricostruiti funzionano perché sono credibili".

Figure pulite, eroi. Molto diverso, Calabresi, dal "Defenestra" protagonista della pièce "Morte accidentale", in scena per anni ben 750 volte, compagnie intere finite in galera per averla rappresentata nella Spagna franchista e nella Grecia dei colonnelli. "Ma nella farsa, costruita sull'escamotage di un matto che s'improvvisa magistrato e giudica gli inquirenti, il personaggio è di chiave, stereotipo, maschera che recita suo malgrado un soggetto cucitogli addosso dal ruolo. Giustamente, in un film quasi neorealista quale questo è, Calabresi viene invece raccontato come un uomo che di Pinelli ha stima e rispetto. Ma non può smentire il suo superiore, il questore Marcello Guida, quando questi dichiara che il suicidio dell'anarchico è la prova della sua colpevolezza, né quando questi lascia intendere che nella stanza dell'interrogatorio c'era anche lui, il commissario. Calabresi accetta perché non può far altro. Si prende sulle spalle il timbro di poliziotto spietato. Viene lasciato solo. I Servizi fanno persino trapelare la falsa notizia che lui è stato a scuola dalla Cia. Finché, credo per paura che parlasse, gli hanno chiuso la bocca con un colpo di pistola. Capro espiatorio, Luigi Calabresi. Vittima sacrificale di chi ha prima ordito le stragi e poi insabbiato le indagini". Già dall'esordio, quando (nel film si vede, in "Morte accidentale" era un tormentone) per ordine del Questore fanno saltare la bomba inesplosa trovata lo stesso giorno alla Banca Commerciale, che avrebbe invece potuto portare all'individuazione dei veri responsabili.

Vittima, dunque, non carnefice. All'epoca, però, Calabresi era l'uomo "che porta la responsabilità della sua fine (di Pinelli, ndr)": la citazione, tanto per non girarci attorno, è dalla "Lettera aperta" pubblicata su "L'Espresso" il 13 giugno 1971 a seguito di un pezzo di Camilla Cederna e sottoscritta da tutta l'intellighenzia di sinistra, Bobbio, Eco, Einaudi, Fo, Levi, Mieli, Moravia, 757 fino alla Z di Zavattini, Zevi, Zorzoli, cioè proprio tutta tranne Giampaolo Pansa e l'Adriano Sofri che per l'omicidio Calabresi fu poi condannato in un controverso balletto di processi fatti e annullati e rifatti. Molti di loro hanno dichiarato in seguito che avrebbero voluto non averlo mai firmato, quell'appello: "Certo, perché ora si sa quello che è avvenuto dopo. Ma non dimentichiamoci che cosa sono stati quei tre anni e i successivi. Stragi spaventose. Una macchina del potere che ha affondato nella menzogna tutti i processi. La buffonaggine di continuare ad additare gli anarchici come colpevoli quando ormai l'accusa era smontata, scoppiata. Le aggressioni, contro di noi mettevano continuamente bombe a teatro. E le violenze".

Come quella che ha subito Franca Rame nel '73. "Per vendetta, per farci pagare la nostra attività sul palcoscenico e nelle carceri. Un colonnello dei carabinieri ha raccontato tutto, con indignazione, e il giudice Guido Salvini ha ricostruito la vicenda: la violenza fu organizzata in una caserma dell'Arma, un luogo spesso frequentato da esponenti di primo piano della Dc. Brindarono, quando ebbero notizia che l'aggressione era riuscita. Quelli erano i tempi. Tutto ciò che è successo da allora in avanti, le stragi che sono continuate, le connivenze di apparati dello Stato con le mafie, le P2, P3, P4, è la coda di ciò che è cominciato allora".

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