A New York, il 20 gennaio, l’Inauguration Day l’ho vissuto in strada, siamo partiti da Dag Hammarskj ö ld Plaza sulla 47esima. Non potevo fare altro. Persone di tutte le età, famiglie con bambini, anziani, ispanici, afroamericani, arabi, ogni etnia era rappresentata. Stampe bellissime e striscioni preparati in casa, con cura, con passione. Quando gli americani si impegnano in una sfilata ne viene fuori sempre una comunicazione grandiosa. Ben fatta. Colori e sorrisi scanditi da percussioni. Sembrava una festa. Guerre stellari, Episodio VI scena finale: tutti festeggiano insieme agli Ewok la fine dell’Impero. Stessa gioia, ma l’impero non è sconfitto e a dirla tutta la frase che ascoltavo più di frequente era un interrogativo: Come è possibile che Trump sia davvero stato eletto Presidente? E a guardarla bene non era estasi sui volti, ma incredulità. E la gioia serviva a esorcizzare un pericolo imminente più che a festeggiare il pericolo scongiurato.
Essere nato alla fine degli anni Settanta mi ha dato l’indiscusso privilegio di aver vissuto di riflesso (attraverso la “militanza” degli adulti: non esistevano al tempo contesti che non fossero politicizzati) e poi in prima persona, esperienze che hanno costruito il mio dna politico. Da bambino tutto passava attraverso le storie che ascoltavo, testi di canzoni, riunioni interminabili di grandi che parlavano ad alta voce e piccoli che giocavano ai loro piedi. Di litigi. Mi accorgevo delle divergenze, che non erano mai personali, mai pettegolezzi ma sempre diversità di opinioni, quando per un po’ non frequentavamo più una casa. Mi accorgevo che tutto si era ricomposto quando insieme si cantava, si fumavano pipe, si tornava a discutere. Questi sono stati gli anni Ottanta, anni in cui tutto era politica e tutto era ascolto. La parola era ieratica, pesata e pesante. Non tutto oggi lo condivido, ma posso dire che nulla era detto con leggerezza. Poi la mia generazione è passata attraverso occupazioni e autogestioni. Vengo a sapere che adesso, in molte scuole, la settimana prima di Natale è occupazione autorizzata dai presidi, cosa che vent’anni fa ci avrebbe fatto inorridire, eppure era proprio quello a cui tendevamo: il riconoscimento della nostra capacità di organizzare il tempo e gli spazi intorno a noi.
Appartengo alla generazione che ha visto sgretolarsi la sacralità della politica, nel 1992, con Mani Pulite. Appartengo alla generazione del ventennio berlusconiano vissuto come peggioramento della qualità dell’impegno politico e quasi dell’abbandono dell’impegno politico. Appartengo alla generazione che ha scoperto che esiste una casta, che esiste la partitocrazia, ma che non è ancora riuscita a trovare una risposta convincente e soprattutto efficace. In realtà non esiste l’antidoto probabilmente perché ancora non conosciamo a fondo la malattia.
Appartengo alla generazione del meglio il nuovo che avanza che l’usato sicuro, anche se il nuovo che avanza, talvolta completamente a digiuno di prassi politiche, paralizza il Paese. Appartengo alla generazione di incazzati con se stessi per non essere riusciti - per non riuscire - a trovare soluzioni diverse dall’andar via e cercare realizzazione altrove. Appartengo alla generazione del G8 2001, prima a Napoli e poi a Genova, alla generazione che ha cercato amici irreperibili per giorni alla Diaz. Alla generazione dei tre giorni di sospensione dei diritti umani a Bolzaneto. Appartengo alla generazione che ha visto morire Carlo Giuliani senza ricordare Giorgiana Masi.
La marcia delle donne nel giorno dell’Inauguration Day è nata sui social ed è subito stata percepita come necessità reale in un Paese dove l’insediamento di Trump, per dirne una, sul sito della Casa Bianca ha già portato modifiche significative. Parole, mi si dirà: ma le forme del linguaggio modificano le forme del pensiero e quindi i comportamenti. La sezione relativa al cambiamento climatico diventa An American First Energy Plan, in cui si annuncia l’eliminazione del Climate Action Plan. La sezione che riguarda i diritti civili viene sostituita da Standing Up for Our Law Enforcement Community. Nessuna parola sulla violenza della polizia ma piuttosto la promessa dell’aumento di poliziotti. Spariscono parole come afro-americano, immigrazione e diritti Lgbt, spariscono le parole, ma non gli afro-americani, l’immigrazione e le comunità Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender, fortunatamente.
Nel bellissimo film dei fratelli Coen “A proposito di Davis”, ambientato in Usa nel 1961, il protagonista è in strada, diretto a Chicago. Non è lui a guidare, ma un altro ragazzo certamente non borghese che, stanco del viaggio, accosta l’auto e si addormenta. Poi tutto avviene in un attimo: arriva la polizia, strappa il guidatore dal sonno, lo carica sulla volante e lo porta via. Come è possibile? ho pensato, un arresto in piena regola senza alcuna motivazione. In “On the road”, scritto da Kerouac nel 1951 ma ambientato negli anni ’40, si raccontano proprio quei poliziotti americani in guerra con chi non era allineato, si raccontano i loro pregiudizi. Eliminare dal sito della Casa Bianca la sezione che riguarda i diritti civili è un atto gravissimo perché i diritti civili sono una conquista che perdiamo nell’attimo esatto in cui smettiamo di dargli attenzione.
Il 20 gennaio eravamo in strada per tutto questo e anche di più. Eravamo in strada per ciò che sappiamo di Trump e per ciò che immaginiamo farà. E non è scontato che in Usa si manifesti, non è scontato neppure che si manifesti per difendere qualcosa che non siano privilegi. Come dimenticare le proteste contro la riforma della sanità di Obama, contro cui si mobilitarono assicurazioni, ospedali privati, una parte dell’industria farmaceutica e della classe medica con il sostegno dei media conservatori. Una protesta che aveva lo scopo di difendere privilegi, e che fu determinante perché minò la credibilità di Obama additandolo come il nemico contro cui unirsi, da combattere e da abbattere. E il collante, fortissimo, fu questo: far confluire nella protesta tutto il risentimento verso ciò che Obama rappresentava, chiamare a raccolta chiunque avesse una pulsione contraria non tanto alla sua presidenza, ma alla sua persona. C’era addirittura, a manifestare, il movimento “birther”, che negava la cittadinanza americana di Obama, e i teorici di un complotto eversivo che avrebbe portato il primo afroamericano alla Casa Bianca. Nel merito della riforma non entrava nessuno, non era in fondo quello il punto. Il punto ormai non è entrare nel merito, ma abbattere.
La protesta del 20 gennaio è stata completamente diversa, non c’erano in piazza gli arrabbiati, non c’era chi deve proteggere un segmento economico, ma chi sa che in gioco c’è molto di più. Eppure nella protesta sentivo che si era persa un’occasione. «I diritti delle donne sono diritti umani», «Black Lives Matter», «La diversità rende l’America grande adesso!» sono slogan universali che perdono sempre quando di fronte hanno un catalizzatore di frustrazione, come è Trump.
Da un lato c’è Trump che trasforma gli hater in elettori, dall’altro slogan eterni che non sono soluzioni, che non possono essere soluzioni. Da un lato un catalizzatore, come è Trump, di percorsi personalissimi, di personalissime sconfitte e di personalissimo desiderio di rivalsa, dall’altro una marea di persone che non parlano di quanto costa un litro di latte, ma che provano a dirti che dove mancano diritti, il litro di latte non avrà più prezzo e diventerà un bene di lusso.
E a me vengono in mente quei versi bellissimi e tremendi della Canzone del Maggio di De Andrè: «Anche se vi credete assolti siete lo stesso coinvolti», ma qui tutto si capovolge: essere in piazza non basta più. Non serve solo essere presenti, ma bisogna trovare la direzione, perché il passo successivo sarà ingrossare noi stessi le fila degli incazzati, dei delusi, dei frustrati che vedranno in Trump il Messia vendicatore, che erigendo muri e cancellando parole avrà trasformato l’America nel paese degli Hobbit.