Sono loro gli italiani dell'anno: ecco perché non bisogna smettere di lottare per lo Ius soli

Ottocentomila bambini e ragazzi nati e cresciuti nel nostro Paese. Che non hanno lo stesso diritto degli altri

Siamo una società sempre più vecchia e in calo demografico. Un’iniezione di nuovi e giovani cittadini sarebbe preziosa per tutti Non approvare la legge sullo ius soli è un’aggressione all’infanzia; in un Paese sempre più vecchio, bloccare questa riforma significa innanzitutto fermare ogni possibilità di crescita demografica, umana e quindi culturale. E non è una scorciatoia dire che non approvare questa legge sia un attacco all’infanzia perché oggi 800 mila cittadini italiani senza cittadinanza sono minorenni nati e cresciuti in Italia; qualcuno pur non essendo nato in Italia ci è arrivato da piccolo e qui ha trascorso la maggior parte della sua vita, qui ha studiato o sta studiando. Sono cittadini su cui l’Italia sta investendo in scolarizzazione e sanità, sono cittadini che per l’Italia rappresentano una risorsa preziosissima.

Ogni volta che parlo pubblicamente di Ius soli mi si risponde che non è una priorità, che chi ne ha diritto può fare richiesta e ottenerla e che quindi il dibattito intorno a questo tema è inutile. A chi invoca sempre altre priorità mi sento di rispondere che una istanza che riguarda quasi un milione di persone nate o cresciute in Italia - e le loro famiglie - ha invece tutto il carattere dell’urgenza.
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Noi, i ragazzi sospesi a metà
22/12/2017

Una istanza che riguarda un sessantesimo delle persone che calpestano il suolo italico non può essere considerata marginale, non fosse altro che per una questione numerica. E a chi crede che sia un dibattito inutile, che serva a distrarre perché in fondo chi ne ha diritto prima o poi la cittadinanza l’otterrà, invito a fare una riflessione sul quel “prima o poi”. Non esiste un caso di scuola che sia in grado automaticamente di risolvere tutti gli altri: chiunque oggi faccia richiesta di cittadinanza ha una storia personale, che spesso è storia familiare, tutt’altro che lineare. E per tutt’altro che lineare intendo che di spostamenti ce ne sono stati tanti in famiglia, spesso migrazioni lunghe, viaggi complicati, dolorosi, ma non è la corda dell’empatia che voglio toccare qui, vorrei invece chiedere a chi legge di seguire un ragionamento che sia quanto più possibile aderente ai fatti, che sia il più possibile razionale.

I ragazzi e le ragazze che oggi chiedono di diventare ufficialmente cittadini italiani talvolta sono nati in famiglie divenute clandestine tra un permesso di soggiorno e l’altro o a causa dell’impossibilità di rispondere a requisiti troppo onerosi vista la situazione economica italiana. E invece di rendere per loro questo percorso semplice, il più semplice possibile, qualcuno pensa che non sia affare della politica, che le priorità sono altre.

E lo pensa perché forse ignora che ogni Paese è un organismo vivo in cui tutte le sue parti devono godere di buona salute perché possa nel suo insieme funzionare. E chi si oppone ha memorizzato questo: tra i 18 e i 19 anni si può fare richiesta di cittadinanza, ma cosa accade quando per motivi che prescindono dalla volontà del richiedente quei tempi non vengono rispettati? Si ricorre ad avvocati che provano a superare la finestra dei 18-19 sulla scorta di un decreto ministeriale del 2013 che creerebbe le condizioni per chiedere la remissione in termini. Cosa significa tutto questo? Che si valutano quei casi in cui esistono elementi di fatto o di diritto che hanno impedito a chi chiede la cittadinanza di esercitare quella facoltà entro il termine previsto dalla legge. 

Ora, ci rendiamo tutti conto di che abominio sia dover accedere a un diritto legittimo unicamente per le vie legali. Ovvero chiusa quella finestra in cui è possibile chiedere la cittadinanza italiana poi o ci si rivolge a un legale o la strada diventa impervia, lunga e iniqua. Dall’Italia, secondo l’Istat, ogni anno almeno 280 mila persone vanno via. Di queste, una parte mantiene la residenza in Italia. Ecco perché leggerete sempre numeri fluttuanti. Esiste una stima ottimista, fatta al ribasso, secondo cui tra il 2015 e il 2025 gli Italiani diminuiranno di 1,8 milioni di persone. Per garantire l’attuale capacità produttiva del Paese, il sistema previdenziale e la copertura di una fascia di lavoro assistenziale (come quello delle badanti in un Paese che diventa sempre più vecchio: secondo il Censis nel 2030 più di 1 cittadino su 4 sarà over 65) è necessario che nei prossimi anni ci siano almeno 1,6 milioni di nuovi cittadini.

Con queste prospettive, davvero possiamo permetterci di non concedere la cittadinanza a un milione di ragazze e ragazzi che vivono in Italia, che in Italia sono nati o ci sono venuti da bambini, che in Italia hanno studiato e che in Italia vogliono restare? Vi interesserà sapere che queste ragazze e questi ragazzi sentono in italiano e amano in italiano. Vi interesserà sapere che se per alcuni italiani puro sangue loro non lo sono abbastanza, per i loro paesi di origine vale lo stesso.

Sabrina Efionayi l’ho conosciuta a Napoli. Ha 18 anni, studia al Liceo artistico, è nata a Castel Volturno e ha origini nigeriane. Sabrina mi ha detto una cosa semplice che non stento a credere: «Ci sentiamo emarginati, divisi tra due culture che non ci accettano. Troppo straniero per essere italiano e troppo italiano per essere straniero». Se a questa emarginazione si aggiunge il non riuscire a ottenere la cittadinanza, è chiaro che ci siamo assumendo dei rischi che a breve sfuggiranno al nostro controllo. Ma soprattutto, una ragazza che è nata in Italia, che ha studiato in Italia, che ha una carta d’identità che per lo più non è valida per l’espatrio, secondo voi di quale paese è cittadina? E ora veniamo al punto che potrebbe spiegare una volta per tutte le resistenze e magari potrebbe contribuire a farle cadere.

Oggi la politica ci presenta una legge che porta il nome di “Ius soli temperato”. Io credo che sia un nome ambiguo, che la penalizza molto, perché l’idea sbagliata che in molti si sono fatti è che basta nascere in Italia da genitori stranieri per avere la cittadinanza.

Su cosa calcano la mano i partiti populisti e xenofobi e i loro house organ? Su questo: una donna incinta si imbarca dalla Libia, approda in Italia, partorisce in Italia, ergo suo figlio con la nuova legge sarà automaticamente italiano. Nulla di più falso. Per poter avere la cittadinanza bisogna rispettare dei requisiti fondamentali: uno di questi è che i genitori del richiedente siano in possesso del permesso di soggiorno e residenti in Italia da almeno cinque anni. Se chiamassimo la nuova legge Ius culturae cadrebbero i pregiudizi di chi è convinto che ai nuovi italiani mancherebbe una cultura italiana. La cultura italiana dipende non solo dalle origini familiari, ma soprattutto dagli studi: e studiare in Italia rende cittadini italiani. Questa legge in qualche modo riscriverebbe la Costituzione ridisegnando e migliorando l’idea di italianità. Italiano chi è? Chi è bianco? Chi è cattolico? Chi discende da generazioni di italiani? E quante generazioni servirebbero per certificare l’italiano vero? Se questo principio fosse stato rispettato nel corso della storia italiana anche preunitaria, oggi non ci sarebbero italiani. Il Journal of Anthropological Sciences ha pubblicato una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori della Sapienza di Roma, delle Università di Bologna, Pisa e Cagliari.

Ebbene, da questa analisi emerge che il Dna degli italiani è il più variegato d’Europa; non esiste niente di più meraviglioso per un popolo di ammettere che ciò che lo rende unito sia la cultura. Si è italiani perché ci si sente italiani. Ma il dubbio viene, e forte, che chi oggi si oppone all’introduzione dello Ius culturae (chiamiamolo con il suo vero nome) lo faccia per intercettare voti in questa eterna campagna elettorale. Alla politica che si oppone direi: il problema non è vincere o perdere, ma come vincere o come perdere. E soprattutto, oggi magari vincete voi, ma noi che vogliamo veder crescere l’Italia, perdiamo. E perdiamo nella maniera più stupida, perdiamo per l’incapacità di riconoscere il nostro prossimo. 

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