Secondo Guadalupe Nettel, ogni persona è simile a uno strumento musicale: possediamo le note ma poi, esattamente come un violino o una tromba, ci diversifichiamo sia per tratti genetici che per quelli educativi e culturali. Come scrittrice, Guadalupe Nettel contempla proprio questo patrimonio di somiglianze e differenze, indagando in che modo la diversità agisca sulle persone nel loro percorso esistenziale.
Nel suo ultimo libro ripubblicato in Italia “Il corpo in cui sono nata” edito da La Nuova Frontiera e tradotto da Federica Niola, (la prima edizione fu per Einaudi nel 2014, scritto però nel 2011), il tratto distintivo che caratterizza la protagonista sin dall’infanzia è proprio una forma di difformità congenita, dovuta a un neo bianco nella cornea, cresciuto al centro dell’iride. Questo intoppo biologico, un difetto di fabbrica, come lo chiamano i genitori della narratrice, è il puntino iniziale da cui Nettel fa scaturire il resto della narrazione, ricollegando man mano tutti gli altri punti fino a ottenere il disegno finale: una panoramica della propria esistenza che si trasforma nell’io collettivo di una generazione confusa, spaesata e ancorata fortemente al presente. L’espediente narrativo della storia è dato dalla psicologa Sazlavski, a cui la protagonista racconta la propria infanzia a Città del Messico, fino ad arrivare ai numerosi spostamenti tra Parigi e l’America Latina per via di una madre irrisolta e inquieta. La dottoressa, nel racconto, non prende mai voce, non ha una fisionomia, non compare mai fisicamente, restituendo al lettore una percezione molto precisa della sua presenza.
Questo libro è il prolungamento di un lavoro che fu richiesto a Nettel da una rivista letteraria. Quella occasione permise all’autrice di incontrare una sua urgenza e di affrontarla attraverso un dispositivo narrativo permeabile ai temi a lei più cari: l’alterità, le dissonanze che si nascondono nella quotidianità di ogni essere vivente, la bestialità più primitiva e genuina che si nasconde nell’animo umano. Grazie a quel racconto, come Nettel stessa dichiara, le parole hanno cominciato a fluire impetuose, convincendo l’autrice a dedicarle una storia specifica, a metà strada tra il memoir e un “bildungsroman”, un romanzo di formazione. In realtà, la faccenda dell’adattamento in un corpo prestabilito dalla natura che cerca una collocazione identitaria nel contesto sociale in cui ci si trova a nascere, è un tema caro all’autrice – il famoso daimon - già emerso nel suo primo lavoro: in “El huésped” scritto nel 2006 mai pubblicato in Italia.
Il romanzo racconta la storia di una bambina coinvolta in una faccenda di possessione e di una fantomatica sorella siamese, sulla cui esistenza reale o solo immaginata verte tutta la storia. La screziatura tra luci e ombre, i chiaroscuri che inquietano i personaggi, il registro liminale su cui il racconto si tratteggia tra realismo e surrealismo, la centralità sensoriale della vista, sono i tratti distintivi che già emergono dalla scrittura di Nettel, che si faranno sempre più nitidi e più circoscritti, soprattutto nei racconti. La forma breve, infatti, è un luogo di appartenenza di elezione e particolarmente confortevole per la scrittrice messicana, che in un’intervista ha dichiarato essere un genere per perfezionisti. «Non è facile scrivere un buon racconto», dichiara Nettel, «ma è più facile farlo diventare un’ossessione finché il risultato non è perfetto».
L’autrice, d’altronde, proviene da una matrice stilistica chiara: l’impronta di un certo realismo magico, l’universo evanescente dei cuentisti latini, il meccanismo distorsivo e perturbante kafkiano. Il suo approccio alla scrittura è, di fatto, visivo, e non potrebbe essere altrimenti, visto che, sin dalla sua infanzia ha portato una benda che la costringeva a maturare una visione frammentaria, ma anche doppia, della realtà.
Nata negli anni Settanta da una coppia di genitori sessantottini, nel solco generazionale che vede il ruolo genitoriale scavallare le vecchie maniere autoritarie, si trova a crescere con un padre assente e una madre presente a singhiozzi, un po’ hippy un po’ spaesati dall’onda del capitalismo e dal bagaglio progressista che sta per investire il Messico. Affidata a una nonna antiquata, immersa in un contesto di coetanei spesso sfuggiti alle dittature sudamericane, spostata da Città del Messico alle banlieue parigine, Nettel ha sempre camminato su un ciglio granuloso, malfermo, minaccioso, che, però, le ha anche garantito una panoramica privilegiata di osservazione sulla complessità del mondo moderno. «Sono convinta», dice Nettel: «Che scrittura e lettura siano due strategie di autoconoscenza molto potenti. Pensare all’intimità degli altri ci spinge a riflettere anche sulla nostra».
Questa intimità è per la scrittrice un luogo prima di tutto biologico, fatto di carne, corpi, percezioni sensoriali, e, soprattutto, macchie ataviche (come piccoli nei) che appartengono a ogni creatura. Molto caro alla sua narrazione, infatti, è l’universo animale e vegetale, cui ha dedicato un bestiario, ‘”Bestiario sentimentale” e “Petali, e altri racconti scomodi” del 2019, pubblicati entrambi da La Nuova Frontiera e tradotti da Federica Niola. Un universo che osserva i bestiari di Julio Cortazár, autore a lei caro, o le creature più insignificanti ma portatrici di enormi aspetti simbolici, simili ai trilobiti; un immaginario che si nutre dei toni gotici di Allan Poe, o degli scarafaggi kafkiani: tutti elementi che riconducono alla fallibilità dell’essere umano, alla sua inevitabile imperfezione. In ciascuna delle storie di Nettel, che siano pesci rossi, piante carnivore, bambine dall’occhio malato, figli unici sbagliati, incontriamo il peccato con cui ciascun essere vivente è condannato a coesistere sin dalla sua nascita: un difetto da correggere, direbbero alcuni. Semplicemente ciò che ci rende vivi, dice Nettel.