Una sedia è una sedia è una sedia. Basterebbe parafrasare Gertrude Stein e la sua metronomica insistenza sulla potenza e l’essenzialità di una rosa - o di una cosa - per intercettare l’essenza di un Salone che ogni anno esonda da vetrine e spazi museali, fiere e palazzi privati, invade Milano di luci e di arredi, coinvolge i quartieri con visioni d’artista, galvanizza ospiti da tutto il mondo. E, trasformando la città in un palcoscenico di estro, cultura e creatività - la nostra migliore industria - riporta alla materia, semplice ed evocativa insieme, di cui sono fatte le cose: l’acciaio, il vetro, la plastica, il legno. La carta.
Che cosa fa di un giornale un grande giornale? La sua storia, la sua autorevolezza, la sua trasparenza, la capacità di dialogare coi lettori, i suoi contenuti capaci di intercettare il presente e anticipare il futuro, nel flusso ininterrotto dei fatti del mondo.
Niente di più lontano da un pezzo di design. Ma è proprio così?
C’è una relazione più stretta di quanto si immagini tra design e giornali. Un rapporto che poggia sulle variabi- li sulle quali si fonda l’esistenza, individuale e collettiva: il tempo, lo spazio, gli altri.
Un giornale è espressione del suo tempo, ma è anche in grado di dare una forma al tempo: di plasmarlo con la sua capacità di interpretare, stabilire connessioni, distinguere la verità e le menzogne, esaltare o scartare notizie, cose, nomi. Analogamente, il design è specchio dei tempi, nell’estetica, nella ricerca, nelle funzioni, nelle soluzioni. Perché cosa fa di una sedia una sedia, di un divano un divano, di una lampada una lampada? La medesima relazione tra materia e forma, l’incrocio di un’ idea con un disegno originale, e lo sforzo di tracciare – coi giornali e col design – una trama simbolica di senso.
Le cose, come i giornali, catturano lo Zeitgeist e lo traducono in sillabe antiche e parole inedite: bussole, sempre, per sintetizzare tutto quello che finché non nomini non puoi abitare.
I giornali, come il design, sono sbalzi temporali. Macchine del tempo capaci di proiettarti avanti e indietro contro ogni eraclitea teoria di linearità del tempo. Sono scommesse sul futuro. Ma anche reazioni istintive verso il passato, quando servono mappe rassicuranti e riconoscibili, in tempi di cambiamenti decisivi ancora da decifrare. Resistenza di solidi modi di stare al mondo e di un sapere sedimentato, che rischia d’essere improvvisamente travolto. «Guardiamo al mondo una volta sola, nell’infanzia. Il resto è ricordo», scrive la poetessa americana, premio Nobel, Louise Glück in “Nostos”. Nostalgia - sociale, politica, culturale – che si esprime in quel vintage che trionfa ovunque, dal cinema alla moda, dalla musica alla tv, dall’estetica low tech alle infinite manifestazioni di retromania: sulle pagine dei giornali, nel design.
I giornali hanno un’anima, fatta della gen- te che li ha scritti e continua a pensarli e a scriverli. Delle loro intuizioni, le loro emozioni, la lucidità nel decodificare i fatti, i ricordi di una storia con la quale confrontarsi, per continuare a esserne all’altezza. I giornali raccontano, esattamente come fanno gli oggetti e gli arredi delle nostre case: frammenti di universi, che si tramandano di generazione e sempre pronti a riaffiorare dagli archivi, intimamente connessi con le nostre emozioni e con le nostre memorie. Materia che resiste alla disintegrazione e alla digitalizzazione. Proprio come la carta, materiale che ha dietro di sé un’epopea di uomini e donne che nel corso del tempo l’hanno protetta, migliorata, tramandata: dai canneti di papiro lungo il Nilo ai laboratori dei copisti medievali, attraverso roghi, incendi, labirinti, censure.
Giornali e cose sono modi per scrutare la realtà, e vedere oltre: che sia un vaso o una lampada o un articolo che ha dentro il guizzo di un attacco, il bagliore di un’idea, la profondità di un’analisi, lo sbecco che rende irregolare un’espressione, li trasformano in pezzi unici. “Seeing Things” diceva un altro poeta laureato, l’irlandese Seamus Heaney: imparare a vedere cose, avere visioni, prospettive, speranze persino. Con la stessa idea di “medium” al centro: consistenza fisica unita a valori socio- culturali, idea che diventa concreta in una forma e in un messaggio, grazie a un dispositivo che le intreccia.
Parole dei giornali e oggetti di design sono espressioni di cura; di un saper fare tramandato da generazioni, manufatti che poggiano sul sacrificio e sull’esperienza, sull’istinto e sulla sperimentazione, sulla creatività e sulla tradizione, sulla fantasia e sulla pazienza. Made in Italy, in un’espressione sola: concentrato di valori e di qualità che vale per il design e per un giornale.
Essenziale al design, esattamente come a un giornale, è la curiosità: il desiderio di capire, di farse e fare le domande giuste a sé stessi e agli altri. Comune a entrambi è poi la progettualità: quale aspetto, quale materia, quali mestieri in ballo e, da una parte all’altra, i cantieri, i timoni, i layout, i pezzi e le interviste, le foto e le illustrazioni, il lavoro di desk. Design è attenzione ai singoli termini che compongono una cosa, analogamente all’ostinata ricerca di esattezza e di efficacia di un giornalista, che non rinuncia alla chiarezza per farsi comprendere, ma neppure alla capacità di sorprendere, di farsi rileggere, di lanciare una sfida al lettore: trattenerlo dalla velocità che ci strattona e invitarlo a indugiare, ora sul gusto della lettura, ora sulla preziosità di una porcellana, la raffinatezza di una curva, la sfrontatezza di uno specchio, la poesia di un decoro.
Perché giornalismo e design poggiano sulla stessa abilità di attivare i sensi verso il mondo, sulla stessa disponibilità ad ascoltare, stretti dall’identica tentazione di comprendere e sintetizzare il mondo. «Cosa», diceva il filosofo Remo Bodei intervistato da L’Espresso (1° febbraio 2011), viene dal latino “causa”, ed «è ciò che riteniamo tal- mente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa». Cose, però, non oggetti: che sono invece mer- ci di cui ci si appropria, che aspettano d’essere consu- mati, status symbol in un tempo nel quale l’ostentazio- ne è demodé. Cose con un valore in sé, come i designer ben sanno, che una volta immessi in mezzo al mondo si impregnano di noi, addensano affetti e relazioni, valori simbolici e affettivi.
Oggi che le cose sono esse stesse terminali informativi, derivati materiali dell’informazione, “infomi” capaci di elaborare autonomamente le notizie, design e giornali condividono, inconsapevolmente, lo stesso destino: quello di rivendicare il loro ruolo antico, ma capace di aggiornarsi di continuo, nel dare ordine, stabilire gerarchia, fissare priorità. Affollati come siamo di oggetti e di notizie, iperinflazionati dalla loro stessa sovrabbondanza, cose e informazioni riscoprono, oggi, la stessa urgenza: uscire dal caos, farsi strada tra il ciarpame, rivendicare valore, sottolineare e rilanciare ciò che conta: qualità e competenza. E saldare così fenomeni estetici ed etici, sapori e saperi in un’unica traiettoria.