La speranza di vita cambia in base a reddito e accesso a istruzione e servizi pubblici: tra i Paesi ricchi e quelli poveri può variare anche di 33 anni. Per questo serve intervenire sulle disuguaglianze

Anche la salute è una questione di classe

Il nostro mondo è diseguale. Il luogo in cui nasciamo, cresciamo, viviamo, lavoriamo e invecchiamo influenza significativamente la nostra salute e il nostro benessere. Ma un cambiamento in meglio è possibile». Sono queste le parole con cui il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus ha commentato la presentazione del “World Report on Social Determinants of Health Equity” pubblicato a inizio maggio.

 

Un’analisi, quella dell’Oms, che rinnova un monito chiaro e preoccupante: la salute non è distribuita in modo equo nel mondo. Malattie, accesso ai servizi sanitari e aspettativa di vita dipendono ancora troppo dal contesto socioeconomico in cui si nasce, si cresce e si vive. Nonostante i progressi registrati negli ultimi decenni, le disuguaglianze sanitarie restano uno dei principali ostacoli alla giustizia sociale globale. Ed è quindi prioritario che le nazioni affrontino i determinanti sociali interconnessi e mettano in atto strategie basate sull’evidenza per migliorare l’outcome sanitario a vantaggio di tutti i cittadini.

 

Uno dei dati più eclatanti del rapporto riguarda la speranza di vita alla nascita: 33 anni di differenza separano i Paesi con i migliori risultati (come il Giappone, con oltre 84 anni) da quelli con i peggiori (come il Lesotho, fermo intorno ai 51 anni). Questo divario, sebbene in calo rispetto ai 42 anni del 2008, rimane impressionante e riflette l’impatto diretto delle condizioni socioeconomiche sulla salute. In termini concreti, significa che un bambino nato in un Paese ricco ha molte più possibilità di sopravvivere, studiare, lavorare e invecchiare in salute rispetto a uno nato in una regione povera o instabile.

 

Il rapporto dell’Oms non si limita a registrare i divari: li analizza alla radice. Tra i principali determinanti sociali della salute vengono identificati il livello di istruzione, il reddito, l’accesso a servizi pubblici (acqua potabile, alloggi dignitosi, trasporti), la parità di genere, la stabilità politica e la protezione sociale. Un dato significativo riguarda la relazione tra istruzione e malattie croniche: le donne con livelli di istruzione più bassi hanno quasi il doppio delle probabilità di sviluppare il diabete rispetto a quelle con titoli di studio più elevati. In Europa, il 35 per cento delle disparità sanitarie è attribuito alla precarietà economica, mentre il 29 per cento dipende dalle condizioni abitative. Attualmente, 3,8 miliardi di persone in tutto il mondo sono private di un’adeguata copertura previdenziale, come i sussidi per i figli a carico o per malattia retribuita, con un impatto diretto e duraturo sulla loro salute. Ancora, Oms sottolinea che le misure volte a contrastare la disuguaglianza di reddito, i conflitti e i cambiamenti climatici sono fondamentali per superare le profonde disuguaglianze sanitarie. Un esempio su tutti fa comprendere la gravità della situazione: le stime parlano di un incremento di 68-135 milioni di persone che cadranno in povertà estrema nei prossimi 5 anni, a causa delle conseguenze del cambiamento climatico.

 

Non si tratta però solo di un divario tra Nord e Sud del mondo. Anche all’interno dei Paesi sviluppati la salute è diseguale. In alcune regioni europee, la speranza di vita degli uomini appartenenti ai gruppi socioeconomici più bassi può essere inferiore di 10-15 anni rispetto a quella dei più benestanti. Per le donne, la differenza può arrivare a 7 anni. In città come Londra, Parigi o Milano, i quartieri poveri registrano tassi di obesità, diabete e malattie cardiovascolari fino a tre volte superiori rispetto alle aree benestanti. La pandemia di Covid-19 ha esacerbato queste differenze. I gruppi più vulnerabili – minoranze etniche, lavoratori precari, persone anziane e senza protezione sociale – hanno subito un impatto sproporzionato in termini di contagi, decessi e accesso alle cure. La vaccinazione stessa, che doveva essere un’arma equa e universale, ha mostrato profonde disparità: in molte nazioni, le persone con istruzione superiore avevano una probabilità di vaccinarsi del 15-20 per cento più alta rispetto a chi aveva titoli di studio inferiori.

 

La lezione del rapporto è chiara: affrontare le disuguaglianze sanitarie significa andare oltre il settore sanitario. Le politiche pubbliche devono essere orientate all’equità, agendo preventivamente su scuola, lavoro, casa e protezione sociale. Il concetto chiave è “Health in All Policies” (salute in tutte le politiche): ogni decisione pubblica – che riguardi l’urbanistica, il fisco, il welfare o l’istruzione – dovrebbe essere valutata anche per il suo impatto sulla salute.

 

In Europa, il rafforzamento della protezione sociale e l’investimento negli alloggi popolari hanno dimostrato di essere strumenti efficaci per ridurre le distanze e i vuoti sanitari in tempi relativamente brevi. L’Oms invita inoltre a rafforzare i sistemi di monitoraggio delle disuguaglianze, integrando dati disaggregati per età, genere, etnia e condizione economica. L’appello è a tutti i governi e alle istituzioni internazionali: garantire il diritto alla salute universale richiede un impegno collettivo, multisettoriale e continuo. Le disuguaglianze sanitarie non sono inevitabili né “naturali”: sono prodotte da decisioni politiche, che possono – e devono – essere cambiate. In un mondo che affronta crisi climatiche, instabilità geopolitica e invecchiamento demografico, il rafforzamento dell’equità sanitaria è una priorità non solo etica, ma anche strategica. Società più eque sono anche più sane, più stabili e più resilienti.

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