Rivendicano uguaglianza, servizi e dignità. E sono stufi della retorica di un paese che pretende di raccontare chi non ascolta e si limita a una narrazione tossica che non va a raccontare l’essere umano ma lo stereotipo

«Rivendichiamo l’orgoglio di essere persone disabili in un sistema socio-culturale che ci fa costantemente vergognare e smantelliamo la rappresentazione negativa e pietistica che ci opprime». Sofia Righetti, filosofa, campionessa di sci alpino paralimpico e attivista, è una donna di 33 anni molto seguita dalla generazione Z in ragioni niente affatto scontate: una feroce fierezza appena mascherata dall’aspetto gentile, glaciali occhi azzurri abbinati a un look da rockstar grunge. 

 

È grazie a lei se oggi il termine abilismo è entrato a far parte dell’enciclopedia Treccani come neologismo che indica tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali, perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Oggi, come molti in Italia, celebra il mese dell’orgoglio per le persone disabili: «Il primo Disability Pride è stato un assalto al potere», dice. 

Sofia Righetti

Siamo nel 1990, il 12 marzo mille persone disabili marciano dalla Casa Bianca alla sede del Parlamento degli Stati Uniti, strisciano su per gli scalini di Capitol Hill per chiedere l’approvazione dell’Ada (American with disability act, il primo testo americano contro le discriminazioni nei confronti dei cittadini disabili) fermo in stallo al Congresso per le troppe negoziazioni. Passata alla storia come The Capital Crawl, la protesta mostrò al mondo anche il problema delle barriere architettoniche e dell’inaccessibilità. Furono 104 le persone arrestate. Il 26 luglio 1990, George H.W. Bush firmò il testo, approvando la prima legge che proibisce le discriminazioni basate sulla disabilità. Così il Disability Pride si celebra nel mese di luglio per onorare l’unicità di ciascuno come una naturale e bellissima parte della diversità umana.

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Il mese dell’orgoglio per le persone disabili punta a questo: smantellare un sistema che tratta e racconta le persone con disabilità con pietismo, senza mai ascoltarle e vederle veramente. 

 

«Quello che chiediamo è uguaglianza di diritti e dignità. Bisogna ascoltare le voci delle persone disabili, non parlare per loro. Dobbiamo riprenderci gli spazi che ci sono stati negati, alzare la voce, combattere per l’autonomia e la dignità», sottolinea Righetti che racconta le difficoltà di vivere in una società abilista. «Fisicamente sono consapevole che rientro nei canoni della bellezza tipica: sono bionda, ho gli occhi azzurri, certo ho una disabilità evidente per via della carrozzina, ma tutto questo mi fa scontrare spesso con l’inspiration porn, molto violento sulle persone di disabilità. Si tratta in sostanza di una modalità pietista che hanno le persone non disabili nel vedere le persone disabili. Possiamo parlare di pornografia motivazionale, quella che rende le persone disabili oggetti a favore delle persone non disabili».

 

«Sono grandi perché ce l’hanno fatta, noi siamo fortunati rispetto a loro», è il rosario di frasi retoriche violente che vengono scaricate su una comunità lasciata ai margini. «Se sono fuori per un concerto o a bere una birra con amici può capitare di trovarmi la persona di turno che mi si avvicina e mi dice: “grande perché nonostante tutto sei qui a divertiti”. Nonostante la disabilità? È un’aggressione poiché ritiene che essere disabili sia svilente, e la considerazione che hanno per le persone disabili è talmente bassa da congratularsi per azioni normali. Sono atteggiamenti che umiliano la dignità di una persona. Veniamo visti come super eroi che “ce l’hanno fatta” oppure come delle tragedie viventi. La nostra esistenza non è prevista dalla società a causa dell’abilismo che privilegia solo alcuni tipo di abilità, e ciò porta all’invisibilizzazione e all’oppressione delle persone disabili».

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Combattere l’abilismo sarebbe meno difficile se ci fossero una cultura condivisa, una conoscenza capillare e comune, un’istruzione appropriata a decifrare la complessità nascosta dietro l’apparenza della disabilità. «Subiamo una discriminazione costante istituzionale e culturale», racconta Giosy Varchetta, attivista e membro del direttivo del Cassero di Bologna: «Ogni persona è fatta da più identità. Essere disabile, queer e disoccupato è diverso dall’esserlo con i soldi. La questione economica non è marginale». Le persone con una disabilità e un orientamento diverso da quello eterosessuale, inoltre, vivono in una zona ancora più precaria e i casi di abilismo svelano il sentire sullo sfondo. Una delle prime invasioni avviene a colpi di sguardo. «Ci si misura con una società in cui l’apparenza e la forma fisica sono quello che contano di più. Se sei disabile non hai sesso, se fai coming out come disabile e queer ti ignoro o ti aggredisco». Lo stigma è duplice e il pregiudizio punta a silenziare chi ha una disabilità: «Il motto internazionale del movimento delle persone con disabilità è “nothing about us without us”, ovvero “niente su di noi senza di noi”, su questa strada bisognerebbe muoversi per rimuovere ogni pregiudizio».

Valentina Tomirotti

Niente su di noi senza di noi, però non è una strada percorsa da media italiani, come racconta Valentina Tomirotti, giornalista mantovana di 39 anni: «L’informazione italiana non si allinea all’argomento ma fa sopravvivere una narrazione di comodo e pietista. Difficilmente il professionista investe sul cambio della visuale ma si spiaggia sulla narrazione del disabile eroe. Una narrazione tossica che non va a raccontare l’essere umano ma lo stereotipo: c’è sempre il disabile che vince medaglie in competizioni sportive raccontate come imprese eroiche e, facciamoci caso, mai una persona che vince un premio letterario, ad esempio. Non c’è una rappresentazione della professionalità neanche nel mondo del giornalismo, difficile trovare un conduttore di tg in carrozzina. Quello che manca è la chiave di volta per far ragionare il pubblico, per farlo serve tempo, investimenti, formazione e competenze. Non abbiamo neanche nel mondo dello spettacolo grandi rappresentazioni, pensiamo a “Uomini e Donne” di Maria De Filippi: un trono per le persone con disabilità non ci sarà mai. Oppure Sanremo, non c’è un conduttore o una conduttrice in carrozzina, c’è la storia del disabile eroe che fa commuovere». 

Giosy Varchetta

I social funzionano da scialuppa di salvataggio in uno spazio mediatico che non prevede la disabilità. È nella rete sociale che si ritrovano frammenti di vita, riflessioni e informazioni. Tra gli approdi, la quotidianità che regala informazioni vitali: «Pensiamo al turismo accessibile: per andare in vacanza devo iniziare a prendere informazioni a febbraio. Non c’è un portale unitario che racconti se quella meta è accessibile per me, perché il livello di accessibilità non è uguale per tutti. Condividere questo tipo di informazioni equivale a fare una divulgazione più idonea, i profili delle persone con disabilità non insegnano la vita da una cattedra ma raccontano il vissuto e danno informazioni che spesso i media mainstream occultano».

 

È nell’assenza di consapevolezza che Marina Cuollo, attivista, biologa e scrittrice umoristica individua la necessità di un mese dell’orgoglio che non sia mera celebrazione ma riflessione e coscienza: «Rispetto agli altri Paesi, in Italia manca un orgoglio identitario ed è quella la cosa più urgente da recuperare. Questo mese serve anche a questo. A dare voce, autonomia e autodeterminazione alle persone con disabilità in un Paese fortemente frammentato. Pensiamo alla questione delle barriere architettoniche, l’Italia è un Paese così antico dove tutto risulta inaccessibile per una persona disabile. Si cerca una soluzione solo dopo, in presenza di una denuncia ma non viene previsto prima».  Dopo, dice Marina, quando compare nella vita «il problema» e si cambia prospettiva. Solo dopo, tutto torna e ogni cosa va al suo posto, che non era il posto previsto: «Il punto è che associamo la disabilità sempre a qualcosa di distante. Non solo ognuno può diventare disabile in qualsiasi momento, ma spesso la disabilità è condizione naturale con l’avanzare dell’età». 

Marina Cuollo

Assenza e presenza anche sui media: «Non abbiamo mai visto una conduttrice con disabilità. Lo scorso anno ho condotto i Diversity media awards con Diego Passoni, ma è stata un’eccezione. Sono bolle rispetto al mainstream che non riesce a immaginarci».  Inimmaginabile per la società è anche il ruolo genitoriale: «Non si può pensare che una persona con disabilità voglia poter adottare o anche avere un figlio da sé grazie alle tecniche di riproduzione assistita. Può succedere che una donna con disabilità impattante rimanga incinta, dopo aver fatto un lungo percorso sanitario, e trovarsi di fronte a medici che invece di supportarla tendono a spingerla a non portare avanti la gravidanza per via di un pregiudizio e non di evidenze scientifiche». 

 

È il desiderio che non viene concesso oggi alle persone con disabilità. «La sessualità è uno dei più grandi tabù, c’è questo squallore di infantilismo che ci circonda per cui le necessità psicofisiche del corpo, il piacere e tutto ciò che gira intorno non viene considerato». Il desiderio, come sempre nel tempo, rimane, per ogni sistema di potere una minaccia. Riportarlo alla luce, nominarlo orgogliosamente serve per entrare in un tempo nuovo più inclusivo e veramente libero da stigma e pregiudizi.

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