Sostenibilità
1 ottobre, 2025Cambiamenti climatici, sfruttamento del territorio e dei lavoratori. Luci e ombre sulla produzione della bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua
La giornata mondiale che celebra il caffè, istituita nel 2015 dall’International Coffee Organization e un primo ottobre che l’Italia la coinvolge direttamente. Per tradizione, usanza, abitudine, vizio. Ogni italiano beve in media circa 5 chili di caffè all’anno, due/tre tazzine al giorno. Un mercato che importa 300.000 tonnellate di chicchi da Brasile, Etiopia, Colombia, Vietnam. La moka ancora domina incontrastata nelle case della Penisola, con il 70% dei consumatori abituali che la preferisce alle capsule delle multinazionali.
Eppure tra il suo aroma inconfondibile, il suo effetto eccitante, la sua funzione di convivialità e di stimolo all’incontro e alla conversazione, il caffè ha la sua nota amara. E non è questione di zucchero. Una filiera sempre più delicata, una medusa che se da un lato contribuisce in modo significativo ai cambiamenti climatici, dall’altro ne subisce le conseguenze. La coltivazione e la lavorazione nell’emisfero meridionale del mondo, i maggiori consumi in quello settentrionale e il rischio che entro il 2050, secondo alcuni studi del settore, più della metà delle terre che ospitano le piantagioni non siano più adatte agli scopi, ai ritmi e alle richieste della produzione.
Temperature sempre più alte che favoriscono la diffusione di nuovi parassiti, come l’Hemileia vastatrix, che rende più difficile e delicata la fotosintesi delle foglie, e una produzione già in calo da alcuni anni in Vietnam per l’intensificarsi di El Nino che spesso non consente più di rimanere nell’intervallo termico ideale di 18-23 gradi.
E i prezzi aumentano, con un balzo in avanti significativo nel 2024, quando la miscela Arabica ha superato di oltre il 60% il costo dell’anno precedente. Catene di approvvigionamento in difficoltà a causa di guerre e blocchi commerciali, peggioramento della qualità, aumento della domanda e condizioni di lavoro spesso caratterizzate dall’assenza di qualsiasi tutela assistenziale, previdenziale e sociale.
Tre quarti del caffè mondiale è coltivato da piccole aziende agricole locali in balia della forza degli esportatori e dei distributori. Le stime parlano di 5 milioni di persone impiegate nella filiera che vivono in condizioni di povertà, tra impieghi stagionali, lavoro nero, paghe a cottimo e compensi che spesso non superano i 3 dollari al giorno. I grandi canali commerciali che distribuiscono il prodotto finito e pronto al consumo rappresentano una sorta di oligopolio inespugnabile, con 5 colossi che detengono il 50% del controllo della filiera.
Iniziative con grandi riflettori pubblicitari di commercio ecosolidale, attento alla salute delle piante e alla dignità dei lavoratori, prodotti biologici, riduzione della plastica. Tante promesse, come quelle fatte dalla multinazionale Starbucks. Che nel 2024 è stata denunciata dalla National Consumers League per violazione dei diritti umani, con una seria di accuse che vanno dallo sfruttamento del lavoro minorile e dal traffico illegale di lavoratori migranti, fino agli abusi sessuali ripetuti in alcune piantagioni del Kenya.
Una soluzione immediata e definitiva a questi problemi non c’è e gli esperti consigliano di acquistare il caffè dai produttori certificati Fairtrade, un marchio etico per la sostenibilità e i diritti umani. Ce ne sono quasi 600 che grazie alla cooperativa si vedono assicurato un prezzo minimo che porti stabilità in un mercato difficile, stimolando gli investimenti e la ricerca. Portando nelle tazzine dei consumatori una bevanda che non solo è meno amara, ma è anche un passo in avanti verso una più corretta e umana gestione della filiera complessiva, con benefici non irrilevanti sulle condizioni di lavoro, sulla tutela dell’ambiente e sulla qualità finale del prodotto.
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