Sostenibilità
10 novembre, 2025I disastri causati dall’uomo e dalle scelte politiche saranno discussi in Amazzonia. Dove la sopravvivenza degli indigeni è messa a dura prova. Saranno loro i protagonisti del vertice Cop 30
Un vertice sull’Amazzonia. In Amazzonia. È la prima volta. Sarà lei, la foresta pluviale, la grande ammalata e insieme grande protagonista, a ospitare la Cop30. Farà da padrona di casa. Accadrà l’opposto di quanto è avvenuto finora: il mondo si immergerà nel cuore della giungla per capire cosa sta accadendo al nostro clima e trovare delle soluzioni allo squilibrio creato dall’emissione dei veleni nell’atmosfera. Toccherà con mano, vedrà con i suoi occhi, sentirà nell’aria quello che viene declamato a distanza, lontano da chi dovrebbe salvarci e lotta per farlo.
Lo ha voluto il presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Lo aveva annunciato all’ultimo incontro di Sharm el-Sheikh, in Egitto, nel novembre del 2022. Ha scelto Belém, Stato del Pará, Nord Ovest del Brasile. Sono attesi almeno 60 tra capi di Stato e ministri oltre a centinaia di esperti e studiosi. Per 12 giorni, dal 10 al 21 novembre, 45 mila ospiti previsti si confronteranno su uno squilibrio ambientale che non è più solo teorico. Gli spaventosi incendi che devastano intere regioni, anche quelle che si ritenevano al sicuro; le alluvioni che sommergono città e terreni coltivati; le prolungate siccità che prosciugano fiumi e laghi; i picchi delle montagne sul tetto del Pianeta senza più neve, assieme al ghiaccio della calotta polare che si frantuma, al livello dei mari che sale e divora le coste, alle correnti oceaniche senza più la giusta dose di salinità che creano perturbazioni e piogge torrenziali. I fenomeni meteorologici sempre più violenti, improvvisi. Con morti e devastazioni: popolazioni costrette ad migrare, terre cancellate, isole che rischiano di essere sommerse. Lavori che si perdono, mandrie decimate, coltivazioni ridotte a pantani.
Non è il cataclisma, l’Apocalisse, la visione catastrofica di fenomeni che hanno i loro corsi e decorsi nei secoli. La Terra ha avuto glaciazioni durate decenni, è stata sommersa dalle ceneri dei vulcani, è diventata inospitale per le temperature estreme. La natura compiva il suo ciclo. Ma adesso è diverso: è l’uomo, con le sue azioni, a provocare i disastri. Il nostro istinto di sopravvivenza deve fare i conti con qualcosa che neghiamo, che ci ha colti impreparati ma che da anni viene denunciato da chi si occupa stabilmente del nostro ambiente. Dopo l’allarme è sopraggiunto un senso di assuefazione, di pragmatica rassegnazione. Quasi di ribellione negazionista. Perché si tratta di decidere sul nostro futuro, neanche lontano.
Ma la scelta implica sacrifici, rinunce, cambiamenti e svolte sul nostro modo di vivere e produrre. È il sistema che va cambiato. Quello adottato finora e che ci ostiniamo a seguire convinti che sia il solo a garantirci benessere e sviluppo, si scontra con la reazione del Pianeta. La natura ci chiede maggiore equilibrio, un progresso sostenibile. Pretende rispetto. Se non lo ottiene, si difende, lotta per sopravvivere, si ribella alla violenza che continuiamo a esercitare su di essa. Con l’emissione di gas per effetto dei combustibili fossili usati dalle nostre industrie e che gli alberi della giungla non riescono più ad assorbire trasformandoli in ossigeno. Hanno i serbatoi d’emergenza pieni. Adesso espellono veleni, non più aria da respirare. Siamo giunti al punto di non ritorno. Forse è già stato superato. Lo dicono gli scienziati, lo confermano studi e analisi.
Di questo si parlerà a Belém. La sorpresa è l’arrivo di migliaia di rappresentanti delle popolazioni indigene di tutto il mondo. Ci saranno soprattutto quelli delle oltre 300 tribù delle Amazzonie, al plurale, visto che la foresta pluviale si estende su nove Stati e assume contorni diversi. Si sono già iscritti in 350, tre volte quanto erano presenti a Parigi e Dubai. Arriveranno a piedi, in carovana, su lance e barche. Una vera flottiglia sta scendendo lungo il Rio delle Amazzoni dopo essere partita dall’Ecuador, il Paese più lontano. Faranno sentire la loro voce, racconteranno le loro vite, elencheranno i problemi che devono affrontare, denunceranno i cambiamenti che sono stati costretti a subire.
Non tutti potranno essere presenti in panel e discussioni previsti nella cosiddetta “zona blu”, il cuore del dibattito ufficiale. Ci sono problemi logistici e organizzativi. I prezzi delle abitazioni e degli hotel sono schizzati alle stelle. «Noi non abbiamo bisogno di alberghi e case – replicano gli indigeni – ci basta un tetto e poi ci arrangiamo con le nostre amache». Sono le procedure di accredito, i controlli e la burocrazia di questa enorme kermesse a limitare gli accessi. Così, come spesso accade, all’esterno dell’area delimitata del vertice si terranno le iniziative più interessanti. Ci saranno feste e incontri, dibatti e confronti. Domineranno i colori, i suoni dei tamburi, le danze, i canti, le cerimonie.
Lula sarà il padrone di casa e sfrutterà questa posizione per rilanciare a livello internazionale il ruolo e il peso del Brasile. Il governo Bolsonaro, con le sue devastanti scelte ambientali, lo aveva trasformato in un paria. Oggi il tre volte presidente può vantare un primo risultato: il tasso di deforestazione in Amazzonia ha raggiunto il livello più basso della serie storica iniziata nel 1988. La riduzione è dell’11 per cento rispetto al ciclo precedente con 5.796 km quadrati di verde risparmiati dai tagli.
I dati arrivano dal Sistema Prodes dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale che ha esaminato il periodo dal 1° agosto 2024 al 31 luglio 2025. Imprimono forza e slancio al Tropical forest forever fund (Tfff) una delle iniziative di punta del gigante sudamericano al Cop30: vuole raccogliere 125 miliardi di dollari. Il presidente brasiliano si è già impegnato a fornire il primo miliardo. È un meccanismo creato dai ministeri delle Finanze e Ambiente che fornisce compensazioni ai Paesi per la riduzione del taglio delle loro foreste tropicali. In pratica propone una coalizione per il clima, una sorta di G7 per controllare i mercati del carbonio. Chi meno taglia foreste viene premiato. In denaro.
L’accordo di Parigi del 2015, con il suo impegno a mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 1,5 gradi, sarà la base di partenza delle nuove discussioni. Si è già visto che la soglia stabilita è stata superata. Non sarà facile raggiungere un’intesa, ma lo stato critico dell’ambiente lo impone. Ci saranno vistose assenze come Usa, Cina e Russia, tra i maggior responsabili dell’inquinamento atmosferico, che da tempo si sono dissociate da impegni e regolamenti. Peserà il contesto di attacchi all’ordine multilaterale. «Per questo – suggerisce Cristina Figuérez, ex segretaria esecutiva della convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici – la Cop30 dovrà andare oltre il semplice accordo sui testi. Dovrà dimostrare che la collaborazione transfrontaliera è possibile, persino indispensabile, anche in un contesto geopolitico polarizzato». Tre le priorità trasversali definite dal padrone di casa: attuazione, inclusione e innovazione. «Questo significa – aggiunge Augusto Carrera, presidente del Comitato consultivo ambientale del Cpce – che, al di là delle promesse, l’obiettivo sarà accelerare l’attuazione concreta delle azioni per il clima, per includere e dare voce agli attori non tradizionali e incoraggiare soluzioni innovative». La scommessa è sul tavolo. Protagonista stavolta sarà il Sud del mondo, vittima diretta dello squilibrio ambientale. Presenterà il conto al Nord ricco e benestante che ne subisce le conseguenze.

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