Robert Abuied ha fatto tutto quello che ha potuto quest’anno per mantenere in salute i suoi ulivi nei 50 dunam (12 acri) di terreno della sua famiglia, nella municipalità di al-Walaja, a nord-ovest di Betlemme. Ma un gennaio più caldo del solito ha ritardato la fruttificazione degli alberi. «Il mese di gennaio, in genere il più freddo e decisivo per la fioritura, è stato mite, seguito da alcune gelate notturne a febbraio. Di conseguenza le olive sono più piccole e questo si ripercuote sui miei guadagni. Ho perso almeno 15.000 shekels (4.220 euro) rispetto all’anno scorso e produco la metà rispetto a 10 anni fa», spiega l’agricoltore sessantacinquenne e proprietario della Cooperative association for olive pressing, il più antico frantoio di Betlemme.
Robert Abuied è uno dei tanti agricoltori palestinesi che ha visto i suoi redditi diminuire per gli effetti combinati del cambiamento climatico e dell’occupazione israeliana. 16 (4 acri) dei suoi 50 dunam di terreni agricoli si trovano nella Seam Zone, una enclave di terre intrappolate tra la Linea Verde - il confine dell’accordo di armistizio del 1949 - e il Muro di separazione, cui i contadini palestinesi non possono accedere senza un permesso concesso dalle autorità israeliane.
Quest’anno Robert non l’ha ottenuto, in linea con le politiche restrittive dello stato ebraico che secondo i dati dell’ong israeliana HaMoked ha ridotto il tasso di approvazione dal 71 per cento nel 2014 al 27 per cento nel 2020, affermando che i Palestinesi si servirebbero di questo strumento per entrare illegalmente in Israele e cercarvi un impiego.
L’assegnazione limitata dei permessi impedisce le attività agricole essenziali come l’aratura, la potatura, la concimazione o la gestione dei parassiti durante l’anno, impattando negativamente la produttività e la qualità delle olive. «In poche settimane il raccolto di un intero campo infestato dalla mosca dell’olivo, le cui larve si nutrono della drupa del frutto può andare perso, senza intervento umano», spiega Thaer Fakhoury, esperto nell’accompagnamento dei contadini dell’Arab centre for agricultural development. Nel 2020 in Cisgiordania sono stati prodotti circa 13.000 metri cubi d’olio d’oliva, mentre nel 2014 la produzione era di circa 25.000 metri cubi, quasi il doppio.
Un colpo duro da incassare per le 100.000 famiglie palestinesi che secondo l’Onu aspettano i proventi della raccolta per rafforzare i propri redditi, in un settore, quello dell’olio, che vale tra i 160 e 190 milioni di dollari secondo il Palestine trade center.
Negli ultimi dieci anni i raccolti di olive in Cisgiordania, ma anche quelli degli alberi da frutto, sono diminuiti non solo a causa della riduzione dei permessi, ma anche per l’effetto del riscaldamento globale che danneggia la fruttificazione degli alberi. «In primavera le alte temperature e gli sbalzi termici notturni interrompono e danneggiano le fasi di fioritura e allegagione dell’ulivo. Di conseguenza il fiore si essicca e cade», spiega Abeer Butmeh, coordinatrice del Palestinian environmental Ngos network. «L’irregolarità delle piogge e la siccità impediscono all’acqua di raggiungere le radici dell’albero, che pur essendo resistente, deve andare a cercare il nutrimento in un suolo sempre più secco», continua l’ingegnere ambientale oggi a capo di una rete di 15 organizzazioni ambientaliste.
La diseguale distribuzione dell’acqua poi peggiora il quadro. L’80 per cento delle risorse idriche in Cisgiordania è controllato da Israele che la incanala verso le colonie, illegali secondo il diritto internazionale. Lo sa bene Rizak Qaraq, contadino di sessantadue anni, le cui viti, ad un centinaio di metri dalla colonia di Neve Daniel, a sud di Gerusalemme, si sono essiccate: «Mi hanno tagliato l’acqua. Non sono riuscito a salvare le piante con il concime», spiega l’agricoltore, cui l’ordine militare n. 158 dello stato d’Israele vieta di scavare un pozzo.
La stagione della raccolta delle olive, tra ottobre e novembre, è uno dei momenti più importanti dell’anno per le famiglie e gli agricoltori palestinesi, non solo per la sua rilevanza economica. La raccolta contribuisce a costruire un senso di comunità familiare e di appartenenza alla terra e alle tradizioni palestinesi. Un sentimento che si tramuta in numeri. Negli oltre 900.000 dunam (222.395 acri) di terre arabili in Cisgiordania sarebbero piantati circa 10 milioni di ulivi, secondo il programma di sviluppo dell’Onu.
La loro produttività non è minacciata soltanto dal cambiamento climatico, ma anche dagli attacchi dei coloni che si fanno più intensi durante la raccolta delle olive. L’ong israeliana Yesh Din ne ha documentati 42 tra l’ottobre e il novembre 2021. Quest’anno, tra l’11 e il 24 ottobre, ce ne sono stati 22 secondo l’Onu, risultati in oltre 800 ulivi distrutti. Ma non solo. Il 19 ottobre scorso a Kisa, nel sud di Betlemme, un’attivista israeliana di 70 anni è stata ricoverata con un polmone perforato da un bastone di ferro scagliatole contro da un colone di Ma’ale Amos. Due giorni più tardi a Burin, a sud-ovest di Nablus, un agricoltore di 22 anni, colpito da una pietra lanciata dai coloni di Yitzhar, ha perso un occhio.
Proprio a Burin, la mattina del 7 novembre scorso, Doha Asous, contadina di 60 anni, ha avuto, dopo più di un anno, finalmente accesso al suo oliveto. Ma non si aspettava di trovare 35 dei suoi ulivi in pezzi, piantati in terra come mozziconi di sigarette spenti, tagliati con la motosega dagli abitanti della colonia di Yitzhar. «Sono rimasta congelata e congelate erano anche le mie lacrime. Quegli ulivi avevano più di 70 anni», racconta la contadina, sessant’anni, mostrando le foto dei tronchi mozzati.
Il villaggio di Burin, poco più di 2.500 abitanti, è situato tra Yitzhar e Har Bracha, due colonie conosciute per la violenza dei loro abitanti. «L’esercito israeliano ha assistito all’attacco senza intervenire. Poi mi ha allontanata dai campi. Non posso permettermi di star ferma. Se lo faccio il dolore prende il sopravvento», denuncia la contadina, i cui terreni agricoli si trovano in zona C, sotto controllo amministrativo e militare israeliano, come l’80 per cento del territorio di Burin. In zona C è vietato coltivare, salvo ottenimento di uno speciale permesso da parte dell’Amministrazione civile israeliana, braccio del governo israeliano in Cisgiordania. Quest’anno a Doha sono stati concessi due soli giorni per raccogliere le olive nei suoi 8 dunam (2 acri) di terreno. «Li denuncerò alla polizia israeliana, ma so già che gli autori non subiranno conseguenze», sospira Doha. Nel 2021 i coloni hanno distrutto più di 9.300 ulivi secondo la Croce Rossa, mentre dal 2005, su 1.395 fascicoli d’indagine riguardanti le aggressioni dei coloni, il 92 per cento è stato archiviato senza la formulazione di un’accusa.
Le minacce psicologiche e le violenze mirano a scoraggiare l’accesso alle terre per i Palestinesi e rinforzare il principio su cui si fonda il diritto fondiario israeliano ereditato dall’epoca ottomana, per cui un campo lasciato incolto per almeno tre anni consecutivi diventa di proprietà dello stato di Israele. Una strategia che sarebbe utilizzata dai coloni per impaurire i contadini palestinesi e accaparrarsi nuove terre. «Rivendicare la proprietà di un campo di ulivi, soprattutto se antichi, o piantare un ulivo, è un gesto politico. L’atto di bruciarli poi statuisce chi ha il potere di cambiare lo status quo e dettare chi è chi e chi è cosa», analizza Dani Brodski, dell’ong israeliana Rabbis for human rights, che ogni anno si reca nei villaggi palestinesi a rischio per supportare le operazioni di raccolta con un gruppo di volontari israeliani.
«La raccolta delle olive è sempre stata un periodo di festa per la mia famiglia. Voglio che continui ad esserlo nonostante tutto», dice sorridendo Doha Asous, mentre raccoglie le olive cadute fuori dai grandi teli di nylon neri distesi alla base dei tronchi. «Mi piace raccogliere le olive che scappano», dice con lo sguardo sfuggente, mentre il caffè aromatizzato al cardamomo bolle sul fuoco da campo. L’olio d’oliva, spremuto la sera prima nel frantoio di Burin, è pronto per essere mischiato allo Za’tar (miscela di maggiorana, timo e origano) e spalmato sul pane caldo.