Camera, i tagli di Laura Boldrini finiscono alla Consulta

Il Giudice del Lavoro dà ragione ai dipendenti e chiama in causa la Corte costituzionale. In questione è l’autonomia del Parlamento e, a cascata, le riduzioni in busta paga decise dai vertici di Montecitorio. Una sforbiciata che vale tre quarti della spending rewiew interna: se fosse annullata, il risparmio passerebbe da 60 a 13 milioni di euro

Sembrava una delle tante sforbiciate decise una volta per tutte: e invece i tagli agli stipendi dei dipendenti della Camera dei deputati, decise ormai più di un anno fa dall’Ufficio di presidenza di Montecitorio, traballano sempre più. La guerra legale è infatti ben aperta, e anzi adesso sale di livello: approderà alla Corte costituzionale. A chiamarla in causa è la Seconda sezione Lavoro del Tribunale di Roma: con una ordinanza che l’Espresso ha potuto visionare in esclusiva, accogliendo di fatto alcune delle obiezioni dei dipendenti, il giudice solleva conflitto d’attribuzione. E arriva a mettere in questione, addirittura, l’autodichia di Montecitorio, vale a dire il principio per cui la Camera (come il Senato) ha da sempre la facoltà di risolvere da sé, senza ricorrere a tribunali esterni, le controversie concernenti i dipendenti.

In ballo ci sono 47 milioni di euro

Un colpo non da poco, soprattutto in tempi nei quali nulla pare più scontato, e anzi proprio per via giudiziaria si smontano decreti del governo (vedasi la sentenza della Consulta che ha mandato a gambe in aria il blocco delle pensioni deciso da Monti-Fornero) o si provano ad aprire vertenze epocali come quella intentata contro il governo da parte di 400 dirigenti declassati dell’Agenzia delle Entrate.

Prima di entrare nei dettagli, va chiarito infatti che la posta in gioco è alta. Per i circa 1300 dipendenti di Montecitorio, che si sono visti drasticamente ridurre sia nel presente sia in prospettiva la propria busta paga, sin qui pacificamente progressiva fino alla pensione; ma pure per la Camera, che sui tagli al personale ha fondato gran parte della propria spending rewiew e che, in caso di annullamento, verrebbe drasticamente ridursi il monte risparmi sul quadriennio 2015-2018, già sbandierato ai quattro venti: da 60 milioni, a 13 milioni di euro.

Una norma incostituzionale?

Ecco, nel conflitto che si è aperto dopo che nel settembre 2014 l’Ufficio di presidenza di Montecitorio ha stabilito unilateralmente (senza accordo coi sindacati) nuovi tetti e sotto-tetti agli stipendi del personale, l’ultima decisione del Tribunale è un punto a favore di consiglieri, documentaristi, commessi e segretari, che vedono un primo riconoscimento delle ragioni delle loro proteste. La seconda sezione Lavoro del Tribunale di Roma, con una ordinanza del 26 ottobre firmata dal giudice Antonio Maria Luna, ha infatti sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti della Camera ritenendo che i suoi regolamenti comprimano diritti costituzionali in quanto “precludono” ai dipendenti “l’accesso alla tutela giurisdizionale”, ossia non consentono di rivolgersi al giudice ordinario per le controversie di lavoro. Il tribunale chiede dunque alla Consulta di dichiarare che “alla Camera non spettava” declinare l’autodichia,  perché quest’ultima “appare in contrasto con il principio di eguaglianza (articolo 3 Costituzione, comma 1), di cui è espressione il diritto di ognuno di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (articolo 24 Costituzione, comma 1)”.

Il passaggio alla Corte costituzionale si rende necessario, spiega il giudice del Lavoro, perché altrimenti – stante la “competenza giurisdizionale esclusiva” degli organi interni alla Camera – non sarebbe possibile per un tribunale ordinario esprimersi in merito alla controversia sui tagli degli stipendi.

Il che è quanto volevano i 175 dipendenti che, assistiti dagli avvocati Vincenzo Ribet, Renato Clarizia e Paolo Teodoli, avevano chiesto al Tribunale di “accertare l’illiceità e/o l'illegittimità del comportamento dell’amministrazione” e “disapplicare” la delibera sui tagli, argomentando – fra l’altro – che ha riformato “in peius” le retribuzioni “senza prevedere alcun limite di durata” al blocco degli stipendi, ed è quindi una decisione “illegittima”, “irragionevole”, viziata di “incostituzionalità”, e persino “discriminatoria” in quanto “i dipendenti della Camera sono gli unici a subire tale imposizione tra tutti i dipendenti pubblici contrattualizzati e non”.

L’esito non è scontato

Insomma adesso il piede nella porta è messo. E l’esito, a differenza del passato, non è scontato. Anche perché, giusto a luglio, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile un analogo conflitto di attribuzione, sempre relativo all’autodichia, sollevato dalle sezioni unite di Cassazione nei confronti del Senato, per una causa di lavoro. La questione sarà esaminata dalla Consulta nell’udienza del 19 aprile 2016: dunque già lì si potrà capire che fine farà la speciale autonomia del Parlamento, sin qui mai messa in discussione.

Per quel che riguarda la vertenza della Camera, si tratta potenzialmente di qualcosa che andrebbe persino oltre la decisione, pure favorevole ai dipendenti, con la quale in luglio la Commissione giurisdizionale (il tribunale interno di primo grado) aveva bocciato non la decisione di far valere anche a Montecitorio il tetto massimo di 240 mila euro annui stabilito da Renzi per i manager pubblici, bensì quella di uniformare a cascata, con una serie di sotto- tetti, tutti gli altri stipendi del personale (anche quelli ben lontani dai 240 mila euro annui). Entro dicembre anche questa decisione, contro la quale l’amministrazione della Camera ha nel frattempo fatto appello, dovrebbe vedere una soluzione definitiva. E chissà se, nel decidere, il collegio giudicante (il tribunale interno d’appello), già orientato a confermare il primo grado, non terrà conto anche del potenziale esplosivo contenuto nella ordinanza del giudice del Lavoro.

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