Era nato come un vaso di coccio tra Di Maio e Salvini, ora ha imparato alla perfezione l'arte di durare. L'incertezza è la sua cifra: riunioni di notte, rinvii, zero intese ufficiali. E tutto intorno a lui è sospeso: i congressi, le discussioni, le battaglie su referendum e regionali

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Aveva iniziato come vaso di coccio tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Adesso è «l’illusione del concreto», tra gli evanescenti democratici e i decadenti Cinque stelle. Ma, sia prima che dopo, Giuseppe Conte resta sempre un “garante”: l’uomo chiamato ad assicurare che l’apparenza più caduca e fragile, invece, finisca per durare. Ed è eventualmente per questo che resterà «nella storia» - pallino che giusto ora ha ricominciato ad ossessionarlo, la storia («siamo dalla parte giusta della storia», «la storia dirà» eccetera).

A ogni valzer la recita si fa più raffinata: mercoledì mattina, parlando dai banchi del governo alla Camera dei deputati, prima di volare a Bruxelles per il Consiglio europeo, Conte si è esibito come fosse lo stanco cantante di un gruppo di una qualche passata notorietà. Un Roby Facchinetti o un Riccardo Fogli della politica, ma senza i Pooh a fargli da contorno. Informativa alle 9 di mattina, tutti i ministri ancora a dormire, sonnecchiavano a faccia coperta dalla mascherina anche il titolare per gli Affari europei Enzo Amendola e quella dell’Istruzione Lucia Azzolina, unici presenti dopo l’ennesima nottata passata insieme a Palazzo Chigi.

Il premier, tre ore di sonno alle spalle, citava appunto ciò che lui stesso è - «l’illusione del concreto», espressione presa a prestito dallo storico Carlo Morandi - dopo aver fatto l’alba per l’ultimo braccio di ferro, sul dossier Autostrade; ossia una decisione che era stata annunciata due anni fa (fuori i Benetton) nel giorno del tragico crollo del ponte Morandi; ossia una questione piombata infine martedì scorso sul tavolo del Consiglio dei ministri nei termini e con le soluzioni coi quali era stata prospettata, 123 giorni prima, anche dalla ministra dei Trasporti dem Paola De Micheli, nel frattempo prontamente scaricata dal suo segretario, Nicola Zingaretti.

Una decisione utile, però, a essere sventolata da Conte mercoledì scorso, 123 giorni dopo, alla vigilia del Consiglio europeo, come «pagina inedita della nostra storia», «qualcosa di straordinario che dovrebbe semplicemente essere ordinario». Del resto in Conte tutto è fuori dal comune, soprattutto quello che dovrebbe essere ordinario: anche la sua capacità di non rispondere alle domande, portando l’interlocutore allo sfinimento. Anche l’abilità con cui continua a raccontare, come vittorie, quelle che sono delle mezze soluzioni rabberciate. «Disporremo la revoca della concessione ad Autostrade senza aspettare i tempi della giustizia», giurava lui due estati fa («Revocheremo la concessione senza pagare penali», faceva eco Luigi Di Maio). «Lo Stato non sarà socio dei Benetton», giurava il 12 luglio, solo tre giorni prima di accettare che invece lo fosse.

Quando lo si osserva alla guida del governo - chiamato adesso «il mio governo» all’opposto di come faceva all’inizio, quando eseguiva il governo altrui - viene in mente il terribile finale di Draquila, il film di Sabina Guzzanti sulla ricostruzione dopo il terremoto dell’Aquila. «Questa è la grande illusione: che ciò che è vuoto, e che è fasullo, non possa durare. Non è vero: dura», è l’ultima battuta del film.

Una verità che Giuseppe Conte conosce benissimo, tanto è vero che durando riesce a sovrintendere, come un direttore d’orchestra, al governo della contingenza, plasmato sopra i dettami dell’italico stato di necessità. Una storia almeno quarantennale, della quale riassumeremo giusto l’ultimo biennio, quello contiano. Necessità era, nel 2018, mettere insieme un esecutivo, in quel caso i giallo-verdi - anche quella a suo modo un’emergenza, democratica, dopo quasi tre mesi di stallo. Necessità era poi, nell’estate 2019, arginare la voglia di pieni poteri del leader leghista Matteo Salvini: e fu governo giallo-rosa. Necessità è, adesso, navigare nell’emergenza: sanitaria, occasionalmente; politica, sempre. A cucire insieme queste necessità, si arriva infatti all’apoteosi del contingente. Al governo Conte, dove tutto diviene necessario, anche l’emergenza. Prorogabile, naturalmente.

In questo senso, l’intendimento per ora accantonato di posticipare lo stato d’emergenza per il Covid-19, proclamato il 31 gennaio e in scadenza il 31 luglio, è la più efficace esplicitazione di quanto il premier stesso sappia che il suo governo coincide con l’emergenza, e di quanto intenso sia il suo desiderio di stare dove sta. «Ci sono le condizioni per prorogare lo stato d’emergenza», ha detto una settimana fa, prima che i malumori del Pd gli indicassero preferibile una maggiore prudenza. «Al momento nessuna decisione è stata assunta», ha sentenziato al Senato tre giorni dopo il ministro della Salute Roberto Speranza, mentre si ricorrevano ipotesi elastiche di proroga: di sei mesi, di cinque, ma anche di tre. Fine dicembre, fine ottobre. Nulla è stato ancora deciso, è la decisione finale.

Una delle cifre di questo governo, del resto, è proprio questa: l’assenza del requisito della certezza. Vale nelle cose grandi come in quelle piccole. Nei testi, nei numeri, nella consistenza delle maggioranze. Per l’erogazione della cassa integrazione, come per le biciclette. «Sarà questa la settimana decisiva per il bonus bici?», domandava l’altro giorno il dem Stefano Pedica. Quanto alle due ruote, infatti, non manca solo l’erogazione del contributo, promesso a fine aprile ma poi ingolfato nella guerra tra i burocrati, follie, liti ministeriali e problemi relativi ai cosiddetti “scontrini parlanti”: manca tutt’ora persino il modulo da compilare per ottenere il rimborso dei soldi, denaro che ormai chiunque abbia creduto alla promessa del governo ha già speso. Un esempio piccolissimo che spiega anche perché il premier si confonda così spesso, quando parla, tra decreti e misure provvisorie, milioni e miliardi.

Non è raro, per dire, che lui stesso - e, a seguire, chiunque altro - ignori cosa ci sarà scritto nei decreti, licenziati spesso «salvo intese», vale a dire senza intesa tra Cinque stelle, dem, renziani, e con un testo ufficiale ancora da mettere nero su bianco. Anche quando riunisce i ministri, manca persino chiarezza sulle materie di cui discutere e su cui deliberare. Ci sono Consigli dei ministri nei quali l’unico punto all’ordine del giorno è «varie ed eventuali» - come in un condominio litigioso - e capita che questa incertezza si sommi alla prima: cioè all’inizio non si sa di cosa si parlerà, alla fine si licenzia un testo che si riscriverà. Più che politica, si tratta di capolavori della metafisica. Qualcosa peraltro di pericolosissimo, come sa l’ex premier Silvio Berlusconi - uno dei primi a fare uso di questa pratica, quando era al governo: fece così pure per il primo embrione della legge anti-corruzione, poi legge Severino, che fu parte non piccola della sua successiva rovina. Quanto a questa legislatura, la pratica del «salvo intese» cominciò coi gialloverdi, che così hanno licenziato almeno una ventina di testi. È dilagata coi giallo rosa, dove peraltro manca sostanzialmente un competitor interno: al posto di Salvini c’è infatti Zingaretti, che ormai è più contiano di Conte stesso. E persino Matteo Renzi, vista pure l’esiguità raccolta nei sondaggi per la sua Italia viva, fatica ormai a fare altre mosse del cavallo. Risultato: un governo sospeso, salvo intese.

Un orizzonte di debolezza sul quale uno come Conte, adesso che ci ha preso la mano, pattina che è una bellezza. Bisognava vederlo, l’8 luglio in conferenza stampa, quando tutto felice parlava del «clamoroso» decreto Semplificazioni come di un «trampolino di rilancio del Paese», senza che di quel decreto, 48 articoli, 100 pagine, ci fosse un testo ufficiale. Mentre il resto del governo si riprendeva dalle liti notturne, lui faceva i gargarismi sopra la valanga di argomenti da citare, dal codice degli appalti ai parchi nazionali, fino alla lista delle grandi opere affrontata come recitando un esorcismo (citata a sprezzo di ogni pericolo persino la Gronda, da sempre invisa ai grillini).

Sono del resto questi i rischi che si corrono quando si innalza al ruolo di premier un avvocato. Cioè qualcuno che per mestiere sappia - così come lo sa chiunque abbia studiato il greco antico sul vocabolario Rocci - che qualsiasi parola può significare una cosa e, contemporaneamente, il suo contrario. Qualcuno che, anche per abitudine professionale, finirà per allestire, invece che riti politici, riti tribunalizi. I Palazzi come Aule di giustizia: luoghi nei quali ricostruire delle dinamiche, invece che farle accadere davvero.

E così, anche complice un portavoce col gusto del teatrale come Rocco Casalino, Conte si è specializzato nelle messe in scena. Sei ore di confronto per il dossier Autostrade, sedici ore per la Semplificazione, vertici tra capi-delegazione annullati, Consigli dei ministri slittati: dalle 21, alle 22, alle 23. Intere notti per celebrare, col favore delle tenebre, riunioni che nulla impedirebbe spicciare di giorno. Celebrative conferenze stampa di discussioni mai concluse, come quelle sulle intercettazioni a fine aprile, sul Cura Italia, sulle riaperture; una tendenza peggiorata conil Covid-19 ma già esistente da prima, con l’autonomia, la Popolare di Bari, il processo civile, Alitalia.

C’è da dire che col buio tutto sembra più decisivo, più importante: il confronto più serrato, la fermezza più scintillante, la svolta quasi destinale - in arrivo giusto con le prime luci dell’alba, come un’illuminazione. Mentre, certo, cala a picco la pur esigua capacità di resistenza della stampa, presa per sfinimento. L’apice di tutto ciò si ebbe in piena pandemia, quando il premier celebrò una conferenza stampa, e firmò il famoso Dpcm in cui estendeva all’intera Italia la zona rossa, tra le 2 e 30 e le 3 3 30 di notte - coi treni carichi di pendolari verso il sud. E alla fine, nella sala delle comunicazioni ufficiali, vi era superstite un’unica giornalista, eroica e domandante (per gli appassionati: esiste l’integrale sulla rete). E se quello era il lockdown, l’abitudine persiste. Tutt’ora, per dire, si assiste ad eventi bizzarri, come le dichiarazioni del ministro delle Cultura e capodelegazione dem Dario Franceschini alle 6 e 20 di mattina, con flash d’agenzia a raffica. A mimare un’emergenza che, in effetti, non ci sarebbe.

Lo stato di emergenza, a mo’ di quello sanitario, serve alla fine a coprire uno stato di indigenza politica. Emergenziale anche quello, a suo modo. Se colpisce da un lato la sproporzione tra gli annunci del governo e la loro esigua realizzazione, colpisce dall’altro lato il silenzio ovattato che copre tutto il resto. Le prossime elezioni regionali di settembre, che pure potrebbero essere il detonatore della fine di questo governo, appaiono un evento lontanissimo.

Eppure mancano soltanto due mesi, si vota in regioni chiave, come la Campania, il Veneto, la Puglia: e i sondaggi a livello nazionale, come quelli pubblicati da Nando Pagnoncelli la settimana scorsa, indicano che il centrodestra è assai più saldo di Pd e Cinque stelle. Ancora più paradossale,il silenzio che avvolge il referendum per la conferma del taglio dei parlamentari. Una legge a marchio populista, di certo un argomento popolare, piuttosto facile da sventolare in chiave anti-poltone e antikasta: ma nessuno lo rivendica, nessuno ne parla, nemmeno i Cinque stelle che lo hanno voluto e portato fino in fondo, festeggiandolo con taglio di striscioni di fronte a Montecitorio a ottobre 2019. Sembra passata una vita: adesso, i grillini sembrano talmente ormai intrecciati col potere da non poter più prendere le distanze da se stessi, come pure facevano meno di un anno fa, abbondamtemente seduti dalla parte di chi ha vinto.

Del referendum dunque non si discute. Sulle elezioni regionali non si battaglia. I Cinque stelle hanno deciso di rinviare sine die gli Stati generali, quel primo ipotizzato congresso che ormai, dopo la reprimenda di Beppe Grillo, forse neanche il professione-ribelle Alessandro Di Battista chiede più. E anche il Pd sembra proprio aver tolto dall’agenda quel congresso per mozioni che Nicola Zingaretti diceva di voler celebrare, fino a poco tempo fa, e del quale invece è scomparsa ogni traccia. Si badi: nulla è davvero cancellato, perché lo stato d’emergenza sospende, non annulla. Mette tutti in una bolla, dove tutto potrebbe accadere da un momento all’altro.

In mezzo a questo brullo niente, rispunta quasi solo Conte. Come ai tempi del lockdown, mentre dall’estate si comincia a intravvedere l’autunno. Intento, potrebbe dirsi, a contare i semestri che ancora lo separano dal punto di sicurezza, il Semestre per eccellenza. Quello «bianco» nel quale le Camere non si sciolgono perché si è nell’imminenza dell’elezione del capo dello Stato. Fatti i conti, il Semestre comincerà il 3 agosto 2021, tra un anno e dieci giorni. Mancano cioè due semestri, per scongiurare le elezioni anticipate. Di fatto anche meno, visto che passato maggio 2021 il tempo diventerà comunque poco. Si capisce dunque la tentazione di coprirne almeno uno con la proroga dello stato d’emergenza. Un’emergenza ordinaria, gestibile. Mentre, come ormai da tempo si dice, per l’emergenza straordinaria, quella vera e senza proroghe, s’allunga l’ombra onnipresente di uno che non fa l’avvocato: Mario Draghi.

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