Loro hanno bisogno di un volto nuovo, lui ha bisogno di un’ossatura sul territorio. Insieme possono raccontarsi come «antisistema» (e anti-Draghi), pur essendo rimasti tutti al governo. Ecco – oltre all’avversione a Renzi - cosa unisce Bersani, Travaglio, ma anche tanti pezzi del Pd. E forse il partito dell’Avvocato del Popolo è proprio questo

Fenomeno sorprendente di questo tempo, l’attrazione fatale tra il grillismo alla Giuseppe Conte e la sinistra: qualcosa che una volta era agli antipodi, e ora si alluma, si avvinghia, si trova. Esplosa alla luce mediatica con tutte le sue contraddizioni lo scorso fine settimana, giusto quando il direttore del Fatto Marco Travaglio - primo interprete del contismo e suo nume tutelare - ha insultato il premier Mario Draghi, dandogli del «figlio di papà» che «non capisce un cazzo» di svariate materie tra cui giustizia e sanità, tra gli applausi e le risate della platea della festa di Articolo Uno-Mdp - cioè di un partito che sostiene il governo Draghi - la faccenda dell’attrazione nella sua fatalità ha in realtà una storia lunga, a tratti carsica e a tratti inspiegabile come non poche delle cose accadute nel campo del centrosinistra negli ultimi tempi. Avrà, di conseguenza, anche un copioso futuro, come tutte le cose dall’origine complessa. Vale per il momento la pena di fermare l’attimo, il momento presente.


Ciò che si vede più in superficie è appunto il fenomeno politico, prima ancora che la sua ratio. Quella che per certi tratti ha portato a non poter tanto distinguere, salvo forse che per la sede scelta (la rossa Bologna) la quarta festa di Articolo Uno da una qualsiasi di quelle del Fatto Quotidiano. L’ospitata del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e quella del presidente della Camera Roberto Fico e pure la presentazione del libro di Travaglio, appunto, officiata dalla sacerdotessa del bersanismo ortodosso, oltreché portavoce storica dell’ex segretario dem, la giornalista Chiara Geloni, e persino Andrea Scanzi, firma del Fatto, che dialoga giusto con Pierluigi Bersani. Picchi di surrealtà, quando Scanzi, iniziando l’intervista ha proclamato: «Ogni volta che faccio un post su di te, decine di migliaia di like. È difficile che tu sia divisivo. C’è una stima nei tuoi confronti totale. Come te la spieghi, forse ancora più che cinque sei anni fa: perché piace cosi tanto, oggi, Bersani?», ha domandato. Ora: mentre Bersani ha risposto come avrebbe fatto cinque o sei anni fa («quelli che mi vogliono bene capiscono che io voglio bene a loro», applausi), è magari proprio a Scanzi che andrebbe rivolta la domanda: cosa è cambiato, rispetto a quando Bersani era da lui definito un «personaggio in cerca d’autore» «sicario (non l’Unico) del Pd», «sorta di virus che ha distrutto dall’interno quel che restava del centrosinistra»? Forse solo questo: che adesso c’è l’attrazione fatale. I 5 Stelle non sono più i cani in chiesa, nei templi della sinistra. Al contrario, semmai la sinistra è ridotta a «fan club del M5S», come da accusa dei militanti più duri e puri di Articolo Uno.


L’origine tecnica di tutto ciò, la palla di neve che diede il “via libera, compagni”, è facile da collocare nella benedizione impartita da Massimo D’Alema un paio d’anni fa: «Mi fido di Conte. Non guardo tanto al quadro politico. Fondamentale è che ci sia sintonia tra le scelte del governo e il Paese, compresa la necessità di farsi carico di fondamentali istanze sociali», disse l’ex premier nel settembre 2019 nel momento in cui accoglieva, sempre alla festa di Articolo Uno, il neo-premier del governo giallo-rosa. Metteva così, D’Alema, il timbro sulla costruzione di quell’alleanza e cominciava a scolpire quel Conte ri-diventato di sinistra che poi avrebbe fatto la sua strada, anche a colpi di Domenico Arcuri e mascherine cinesi. L’idolatria cominciò lì.


Ma adesso siamo ben oltre. La questione s’è come velocizzata al galoppo dacché Conte, già «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» a detta di Nicola Zingaretti e di Goffredo Bettini, nel febbraio 2021 è uscito da Palazzo Chigi e ha cominciato la sua faticosissima corsa a cavallo tra l’ipotesi di diventare re dei grillini e quella di farsene uno suo, di partito. In quello spazio, tra lui parvenu della politica politicante, e il Pd in disfacimento come centro di gravità permanente, s’è alimentata una specie di partito di Conte che non è davvero un partito, piuttosto una galassia, un insieme di luci sparse qua e là, non solo a Roma, ma lungo lo stivale. In tanti si sono fatti sotto in questi mesi - prima e dopo che lo stesso presidente del parlamento europeo David Sassoli gli andasse plasticamente a citofonare a casa - tanti hanno aperto una interlocuzione, un dialogo diretto con Conte. Singoli o in gruppo. Dalla sinistra-sinistra, o (meno evidente) dallo stesso Pd. Non si tratta soltanto di pezzi da novanta, e fenomeni noti, come quello ad esempio che riguarda Francesco Boccia, ex ministro nel governo giallo-rosa, ora responsabile Enti locali del Pd, regista di un pezzo delle alleanze per le amministrative, e di fatto talmente in sintonia con l’ex premier da essere un perfetto amalgama, un pezzo di contismo nel regno del Nazareno ai confini col partito unico.

Ci sono anche, sul territorio, pezzi di Pd che si propongono come ossatura del contismo, punti di riferimento per un mondo localmente poco o nulla strutturato. Non è un segreto tra i dem, giusto per fare un esempio, che il campano Andrea Cozzolino, già pupillo di Antonio Bassolino, eurodeputato dem al terzo mandato, già entusiasta del Conte due, fosse sul punto di spiccare il salto verso il (mai nato) partito di Conte: resta di certo uno strenuo fautore dell’alleanza organica Pd-M5S-Leu, ponte di collegamento, plauditore del reddito di cittadinanza. Tanti, come lui: pezzi di sottogoverno non gratificati all’ultimo giro di nomine nell’esecutivo Draghi, nomenklatura locale troppo trascurata dai vertici romani, sindaci e amministratori in genere che non trovano interlocuzione nel loro stesso partito. Gente che ha visto direttamente all’opera Conte, all’epoca del governo, che non ne ha disprezzato il modo di muoversi, e che ha intuito - nello stesso tempo - di poter trovare da quelle parti maggior ascolto, spazio di manovra, potere, di quanto non possa navigando tra le settecento tribù in cui è diviso il Pd, giudicato spesso «impraticabile». La tentazione “contiana” è anche frutto della mancanza di una alternativa: tutti coloro che una volta si sarebbero “buttati a sinistra”, adesso si buttano sui 5 Stelle. Per l’assenza della sinistra, o meglio: perché per altro verso anche la sinistra-sinistra si è buttata su Conte.

Di qui, torniamo alla festa di Borgo Panigale che ha applaudito Travaglio, il primo alfiere del contismo, e all’attivismo di Articolo Uno: la sinistra-sinistra che si propone come sensale del dialogo Pd-M5S. Proprio mentre anche il Pd vuol fare lo stesso: essere cioè il punto aggregatore di tutto, in una rincorsa che genera nei 5 Stelle un potere che a questo punto forse nemmeno avrebbero. Ma di certo, mentre non investe l’intero Pd, la faccenda riguarda l’intero Articolo Uno. Che si pone in blocco come ponte, al livello locale, ovunque può. È accaduto con Nico Stumpo nelle lunghe trattative in Calabria per l’individuazione del candidato di centrosinistra, è accaduto in Emilia-Romagna nella costruzione della larghissima coalizione a sostegno del vincitore delle primarie, l’assessore del Pd Matteo Lepore. A Bologna, ad annunciare che ci sarà una lista insieme delle sinistre, comprese Coraggiosa di Elly Schlein e Coalizione civica di Emily Clancy, è stato appunto Vasco Errani, ex governatore e peso massimo di Articolo Uno (specie in Emilia-Romagna). Con il grillino Max Bugani in prima fila ad applaudire e con Roberto Fico che, impegnato in un altro dibattito, dava senz’altro la benedizione: «Dobbiamo costruire una strada per il futuro che possa portarci alle elezioni 2023», ha detto il presidente della Camera. La coalizione di Bologna, considerata il futuro, ricalca sostanzialmente il passato più recente: il Conte bis.

È in effetti in quell’esperienza di governo, resa in qualche modo fondante anche dalla mostruosa responsabilità di far fronte alla pandemia come si evince dal racconto da reduci di guerra che ne fanno tutti gli ex ministri, a rappresentare un elemento di collante fortissimo. Con aspetti paradossali, visto che gli stessi protagonisti si trovano tutt’ora al governo, a partire dal titolare della Salute e segretario di Articolo Uno Roberto Speranza, ma provano a cercare la sponda con l’anti-sistema: è forse questo, assieme a una qualche nostalgia del tempo in cui il potere era maggiore di oggi, quello che tiene insieme il contismo-travaglismo con la sinistra-sinistra nel nome di qualcosa che allora era “sistema” ma che ora può vicendevolmente ripetersi: siamo qui oggi, mentre Draghi è a palazzo Chigi, perché in fondo i poteri forti non ci volevano. La teoria del Conticidio, da questo punto di vista, va benissimo a braccetto con quel che disse ad esempio Stefano Fassina all’alba del governo Draghi: «L’anormalità era un esecutivo, il Conte due, che iniziava a occuparsi di questioni trascurate e fasce sociali lasciate ai margini. Conte non è Che Guevara, il suo governo non era certo rivoluzionario, ma ha saputo mettere in discussione rendite che sembravano intoccabili».


Quel pochissimo di anti-sistema che è rimasto a una sinistra che è tutt’ora al governo, se la cava insomma così: con qualche accenno di sorda ostilità all’esecutivo, impastato (per buona pace della logica) con l’insistenza sulla continuità tra le politiche del governo attuale e quello precedente. Il governo dei figli di qualcuno contrapposto a ]] dei figli di nessuno, per tornare alla questione che ha dato il la a tutto. Di qui la grande popolarità del direttore del Fatto, che critica apertamente e violentemente il governo Draghi dal primo giorno (non doveva nemmeno vedere la luce, secondo lui), presso un mondo - quello bersaniano - che, a suo tempo, dai 5 Stelle fu violentemente respinto.


Di qui, qualche cosa che la Storia avrebbe decretato incredibile e che forse è invece la psicologia a spiegare. Bisogna ritornare ai tempi evocati da Scanzi, o giù di lì. Otto anni fa, per la precisione. Quando si fece il famoso streaming durante le consultazioni dopo il voto 2013, e a Pierluigi Bersani i 5 Stelle dissero un sonoro no. C’era ovviamente il segretario del Pd a fare le consultazioni e, spesso dimenticato, il suo vice di allora, Enrico Letta. Fu l’ultima volta in cui si vide all’opera l’accoppiata Letta e Bersani, che erano stati una punta avanzata dell’ultimo governo di Romano Prodi. In rapida sequenza, nel giro di dieci mesi, sarebbero stati entrambi fatti fuori da Matteo Renzi.
Ecco, oggi che l’uno guida il Pd e l’altro è uno dei fondatori di Articolo Uno, nel lavorare all’alleanza con Conte hanno, secondariamente, entrambi, la garanzia di non ritrovarsi tra i piedi il senatore di Rignano. Un altro elemento che li unisce a Travaglio. Fuori e dentro alla festa di Articolo Uno, peraltro intitolata a “Quello che unisce”. Vicino a Conte: lontano da Renzi. Non fosse altro che per questo. E forse, alla fine, il vero partito dell’avvocato del popolo: eccolo.

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