Ha quarant'anni tondi di permanenza in Parlamento, sembra averci preso gusto solo ora che non deve «più dimostrare niente a nessuno» e può osservare in pace l’effetto dell’accoppiata Schlein-Meloni «che invecchia di colpo l’intero panorama». Alla stessa sua anzianità politica, nel 1983, Giulio Andreotti festeggiò con una serata coi fiocchi all'Adriano, allora teatro, affollato da qualsiasi potente dell’epoca. Quarant’anni dopo, Pier Ferdinando Casini li ha festeggiati, da senatore eletto nel Pd, con un tour di accalcate presentazioni del suo libro di memorie (C’era una volta la politica”, Piemme) in occasione del quale si è auto-battezzato «ultimo democristiano». Ha sfiorato il Quirinale l’anno scorso, si tiene allenato per il prossimo giro (lui nega). Intanto studia «le sensibilità altrui» portandosi nello zaino “Storia trans gender” di Susan Stryker («l’anno scorso mia figlia diciottenne mi ha apostrofato: “Non mi devo mica vergognare che non voti la Legge Zan, vero? Conoscendoti qualche dubbio ce l’ho”»). È in treno, diretto alla presentazione di Pistoia, reduce da quella di Ferrara, dove Dario Franceschini ha ricordato di quando, nel 1975, al congresso dei giovani Dc di Bergamo, fu convinto da lui a cedergli le sue cinque deleghe. «A son parti’ moroteo, a son turna’ dorotoeo», fu il ritornello di chi guidava, nel viaggio di ritorno verso Ferrara dei cinque, a bordo di una Prinz.
Stavolta Franceschini è tornato schleiniano.
«Non voglio entrare nelle dinamiche del Pd, per rispetto verso il partito che mi ha eletto, però da osservatore capisco il suo ragionamento: ritiene che il Pd abbia bisogno di una discontinuità, che serva un elettroshock. E ancora una volta ha dimostrato di essere il miglior king maker della politica italiana».
King maker o burattinaio?
«Sono finite le epoche di burattinai e burattini. Sono convinto che i presunti burattinai siano così intelligenti da non proporsi per tali, e che i presunti burattini non siano così sciocchi da farsi gestire da qualcun altro. Peraltro Elly Schlein i voti li ha già presi, sul territorio, e molti. Non è poco, in un'epoca in cui si parla di scarsa selezione della classe dirigente. E direi che la sua inclinazione non è quella di fare ciò che gli altri immaginano farà. Lo si è già visto per la posizione sulla guerra in Ucraina. Anche gli stereotipi hanno fatto il loro tempo».
Se dovesse darle un consiglio?
«Legga Mao Tse-Tung, si attrezzi a una lunga marcia. Le finestre temporali dei leader sono sempre più brevi, lo spiego nel mio libro, il difficile è resistere. La prima fase, di un anno, servirà a rinvigorire il partito. Poi ci sarà il problema di rinvigorire le alleanze: come diceva Churchill, l'alternativa ad avere alleati scomodi è non avere alleati».
C’è chi le consiglia di spolpare i Cinque stelle.
«La strategia di spolpare non è mai intelligente. Poi, certo, si può spolpare de facto, che è altra cosa. Ma spolpare Giuseppe Conte non è uno scherzo».
Stabiliamo una volta per tutte: Conte è un democristiano?
«Diciamo che ha una abilità di navigazione interessante. Non so se gli farà piacere, ma ha qualcosa di andreottiano».
Elly Schlein quale democristiano le ricorda?
«Potremmo immaginarla una Zaccagnini, senza la sua bonomia. Anche lui prese la Dc in un momento in cui viveva un declino inesorabile, e tutto sommato la rilanciò».
Matteo Renzi?
«Potrebbe essere Fanfani: fumantino, resistente, perspicace, capace di vittorie e sconfitte. Carlo Calenda lo assomiglio a Pandolfi, ministro dell’economia e finanze serio, più con propensioni governative che partitiche».
Con il che mi ha già risposto circa il futuro di Calenda nel terzo polo. E Meloni?
«La debbo ancora vedere in azione, è una ragazza in gamba che ha fatto una lunga marcia, dalla militanza all’opposizione, e poi ha avuto la fortuna di incrociare il declino di Fini e di Berlusconi. Di fatto è l’erede del Cavaliere».
Come ci è riuscita?
«In politica l’eredità non si riceve mai: si ruba, si prende. Esistono i delfini, ma il principe non diventa per forza re. Lei non ha avuto bisogno di partecipare alla gara, si è presa lo scettro. Anche la fortuna, dicevo, gioca un ruolo essenziale: a ottobre ha detto "non sono ricattabile", io ricordo di aver detto “c’è qualcuno in questo paese che non si fa comprare". Però l’ho fatto vent’anni fa, Berlusconi era un po’ diverso da oggi, era al massimo del potere».
Lo disse anche Fini, che però oggi è fuori dalla politica.
«Fini ha pagato un prezzo certamente superiore alle sue responsabilità. È diventato il grande nemico della destra. Ma la vera svolta della destra l’ha fatta lui, da solo, e se Meloni non deve rendere conto a nessuno di tante cose è proprio grazie a questo. Adesso ha responsabilmente anteposto il processo alle sue ambizioni, ma non mi meraviglierei se si presentasse alle europee nel 2024: prenderebbe un sacco di voti».
Meloni dopo la strage di Cutro è ancora in luna di miele?
«Fin qui ha avuto tutte le condizioni positive. Adesso è in un momento topico: o dimostra di essere la solver dei problemi italiani, oppure la sua occasione sparisce. Diciamo che se il buongiorno si vede dal mattino, c'è più di un problema. Però la legislatura dura cinque anni, è presto».
Fratelli d’Italia si può trasformare in una nuova Dc?
«Paragone ardito. Nel libro parlo della pedagogia del potere: perché il potere ti cambia. Finché sei all'opposizione dici quello che ti pare, invece al governo ti devi confrontare con la realtà. Oggi il cambio di passo di Meloni c’è nella politica estera, mentre all’interno –altro grande classico – vedo che i suoi peggiori nemici sono i suoi alleati e la sua squadra. Il suo problema è che non può essere una one woman show».
Non ha trovato un comprimario, però, tra Piantedosi, Nordio, Lollobrigida.
«I problemi maggiori vengono dalla sua squadra. Meloni deve dedicare tempo e spiegare bene ai singoli che fare. Perché sono anche persone di qualità ma sono sbaricentrati».
Un giudizio generoso.
«Dopo una certa età si è generosi».
Meloni e Schlein sono diventate parlamentari a 29 anni. Lei entrò alla Camera a 27. È il segno che la parabola dell’antipolitica è finita?
«È finita l’illusione dell’antipolitica e, per ora, anche la supplenza dei tecnici. Le ragazze sono in campo: l’effetto Schlein-Meloni rende vecchio tutto il panorama, crea problemi a chiunque».
Renzi invece si è fregato le mani: dice che per il Terzo Polo si aprono praterie.
«Mai credere ai politici: quando dicono una cosa è sempre una bugia. Intendiamoci, Renzi è il più bravo di tutti. Ma ha un nemico, che rischia sempre di abbatterlo: Matteo Renzi. Se riuscisse a rottamare una parte di sé, allora sì che si aprirebbero praterie»
A proposito di fortuna: nel 2001 lei doveva fare il ministro degli Esteri, poi finì a fare il presidente della Camera.
«Mi fregarono i poteri forti, quando c'erano. Facemmo un vertice, io, Fini e Berlusconi: io avrei fatto il ministro degli Esteri, lui la Difesa. Dopo tre giorni mi chiama Fini e mi dice: "Tu pensi davvero di avere la Farnesina? Guarda che ha telefonato Gianni Agnelli, ha detto che ci andrà Renato Ruggiero”. Era nel Cda della Fiat, l'Avvocato spingeva per lui. Come ministro degli Esteri è durato poco, ha fatto un errore mortale: la prima volta che è arrivato a Bruxelles ha detto a Berlusconi: “Adesso ti spiego io cosa dire”. Fine».
La presidenza della Camera è stata la sua fortuna. Eppure nessuna legge porta il suo nome.
«Ho avuto la fortuna di esser protetto da tante insidie che la politica porta. Ho fatto tantissime cose, come presidente della Camera e non solo. Non ho il problema di avere un provvedimento a mio nome. E poi non credo alla politica che vive di effetti speciali».
Le fa impressione il Senato dimezzato?
«Quello che mi fa davvero impressione è il fatto che il Parlamento sia diventato un passacarte. Non legifera più. La riforma Calderoli prevede addirittura un parere consultivo delle Camere: di questo passo rischiamo di diventare il Cnel. Lo dico ai tanti di questa maggioranza che, a differenza mia, guardano con favore al presidenzialismo: guardino cosa accade nei Paesi in cui c’è; guardino come funziona in America, dove i presidenti devono contattare fino all’ultimo parlamentare per far passare un provvedimento. E noi vogliamo fare un presidenzialismo senza Parlamento? È una cosa folle».
Lei pensa che si farà davvero?
«Constato che l’unico istituto che in Italia funziona bene è quello del capo dello Stato, e il presidente gode della massima popolarità. Domando se abbia senso toglierlo dal ruolo super partes che ha, per trasformarlo nell’epicentro delle divisioni politiche. A me pare un errore madornale».
Rino Formica dice che con Schlein il capo dello Stato perde il «patronàge» sul Pd, un link che in tutti questi anni c’è sempre stato. Pensa che questo possa sintetizzare un elemento del disagio dell’area popolare?
«Credo che se Pd perdesse sua vocazione istituzionale, perderebbe agli occhi di tante persone gran parte del suo valore. I sacrifici fatti per rimediare a errori di altri, e che lo hanno portato anche al governo, non vanno sottovalutati. Lo rendono un vero partito della nazione».
Viva il Pd governista?
«Una parte di italiani, soprattutto moderati, vota i dem anche per quello. Una parte di giovani, anche quelli che sono andati a votare per la Schlein, pensa che questo sia il problema. Ecco perché è difficile essere leader: non farsi carico degli uni o degli altri significa perdere comunque una fetta importante di elettorato. Complicata la sintesi, ma bisogna farla. Il Pd è un partito dello Stato, però deve recuperare un rapporto con il mondo dell’opposizione. E non è nemmeno decisivo in Parlamento, dove c’è una maggioranza schiacciante e, bisogna riconoscerlo, coerente su un punto: prende tutto ciò che è possibile».
Che intende dire?
«Mi sembra che l'unica cosa su cui c’è vera sintonia in questa maggioranza sono le nomine, i posti da occupare. Non si fanno sconti, non ci sono gentlemen’s agreement con l’opposizione: hanno una forza nei numeri che fanno valere sempre, anche per cose che non cambiano i destini del mondo. Probabilmente la fame atavica di chi è stato all’opposizione giustifica questo comportamento, però non è una scelta lungimirante. Anzi è un grande errore, se ne accorgeranno».
Dicono che abbia fatto questo libro perché si prepara al prossimo turno del Quirinale.
«Questo libro non lo volevo neanche fare, perché sono indolente. Adesso posso dire che mi ha affaticato, ma mi ha divertito».
Vi si ravvisa anche una specie di manuale Cencelli democristiano: 24 citazioni di De Gasperi, 18 Andreotti, 5 Mastella, 4 Follini.
«I politici che mi sono veramente antipatici non li ho neanche nominati. Non mi interessa più litigare con la gente. Nella vita bisogna decidere di vivere serenamente».
E il Colle?
«È l’ultimo dei miei problemi, il potere è un’illusione ottica».
Bum.
«Dico davvero, le cose reali sono altre. L’ho sempre pensato, ma quando sei in carriera devi sempre dimostrare qualcosa. Adesso non devo più».