Su Netflix la storia (vera) di un ragazzino in un carcere minorile che diventa un celebre stand-up comedian. Né Mare fuori né Adolescence. Ma la dimostrazione di come ci si possa evolvere anche da un destino che sembra segnato

Bad Boy, una serie da non perdere sulle ali (comiche) della libertà

In genere al rilascio di una nuova serie degna di nota si scatena la gara per trovare le giuste somiglianze. Poi arriva “Bad Boy” su Netflix e improvvisamente il giochino si arresta perché non è gia visto, ma nuovo e inaspettato. Otto incredibili episodi in lingua ebraica che non sono né una nuova “Adolescence” né un vecchio “Mare fuori” ma un groviglio di vissuto realissimo che trasforma il dramma in ironia, in un viaggio a sorpresa. 

 

È una storia di un’evoluzione da una strada che sembrava sbarrata, una porta che si spalanca nonostante tutto, per volare sulle ali comiche della libertà. Quel che ti lascia la visione di questa sberla israeliana è uno sguardo raddoppiato e consapevole su due distinti livelli temporali ed emotivi. Che si intrecciano di continuo, dandosi un senso reciproco, mentre la paura si evolve in risata. 

 

C’è un ragazzino perduto nello ieri, quello in cui la comunicazione passava dalle rotelle del telefono fisso, che saltella tra un entusiasmo vitale e una sniffata di colla, cerca amore e ruba cose e quando finisce dietro le orribili sbarre di un centro di detenzione minorile sopravvive imparando a non rinunciare al lato più profondo di sé. E c’è un uomo ritrovato nell’oggi, quel ragazzino che voleva essere un duro ha trasformato le sue cicatrici in battute diventando un comico che ci sa fare e i cui monologhi dal palco ripropongono la crudezza del carcere riscrivendo il suo vissuto. 

 

Una storia vera, ispirata, in cui Daniel Chen, stand up comedian di reale successo rivede se stesso in flashback continui e illumina il tempo in cui gli occhi erano bui e il futuro non si poteva neppure intravedere, con lo stesso, spiazzante sorriso. 

 

Dean e Daniel, il primo chiuso in una prigione violenta come la vita perduta, il secondo aperto sulla scena, luogo di libertà per eccellenza, da cui puntella come un coro greco la tragedia che non è stata. Perché il tredicenne senza carne dal sorriso grande (Guy Manster, faccia indimenticabile), sopravvive agli altri e a se stesso scoprendo la possibilità di ridere, sino a diventare l’adulto che scatena il suo pubblico a suon di battute raccontando in forma comica il precipizio che ha attraversato, i coltelli, i permessi negati, la lotta feroce per la supremazia e il controllo. 

 

Violentissima, a tratti insopportabile, spesso esilarante ma soprattutto di rara fattura, la serie vincitrice di premi a pioggia dimostra come il destino segnato sia un dogma friabile, dai piedi d’argilla. E a che a volte, come ha spiegato il co-creatore Ron Leshem, «c'è qualcosa di geniale nel raccontare la storia di qualcuno che ha una vita di merda ma vede tutto attraverso l'umorismo».

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