Stefano Rapone è uno che di mestiere riesce a far ridere. Anche se lui non ride mai. Stretto nella sua felpa di ordinanza («Ne ho dieci, tutte uguali, sono un po’ la mia divisa da supereroe»), quella voce baritonale, monocorde, barba, occhiali e una valigia pronta per il Giappone, lo stand up comedian romano è riuscito a costruire negli anni una sorta di immaginario altro rispetto alla figurina del comico tradizionale. Dai fumetti al palco, da Galeazzo Mussolini col busto di Pino Insegno al libro di racconti. Ai nastri di partenza il programma nuovo di zecca, “In&Out” prossimamente su TV8, che mette insieme tutta la banda della sua generazione, da Valerio Lundini a Michela Giraud.
E poi il podcast dei record, una chiacchierata comoda che comincia sempre con la domanda diventata tormentone tra gli estimatori: «Come stai?». «Beh effettivamente io e Daniele Tinti con “Tintoria” abbiamo superato le 250 puntate e i 50 milioni di visualizzazioni su YouTube. Non so quale sia il trucco che fa funzionare il tutto, ma io parto dal presupposto che, male che va, ho bevuto una birra con una persona interessante. Chiamiamo solo quelli che ci piacciono perché è sempre bello imparare qualcosa. Per esempio, Mario Adinolfi vorrebbe essere invitato ma non possiamo farlo perché non voglio rischiare l’operazione simpatia. Abbiamo provato a creare un’isola con persone civili e quando sia crea un contrasto cerchiamo di smussarlo». Praticamente il contrario del talk show. «Come più o meno dicevo nel fumetto “Marco Travaglio Zombi”, i talk sono luoghi dove l’obbiettivo non è quello di informare ma solo di buttare gli uni contro gli altri, uno sketch per spettatori che si nutrono di odio travestito da intrattenimento».
E nelle tante vite di Rapone c’è anche un libro, “Racconti scritti da donne nude” (Rizzoli) che è stato candidato allo Strega da Beppe Cottafavi («Lo volevo intitolare “Il libro che ha vinto il premio Strega”, così se uno entrava in libreria per chiedere il volume vincitore si sarebbe trovato il mio fra le mani»). E anche se alla fine non ce l’ha fatta ne è nata una bella battaglia in forma di gag sul valore incompreso della scrittura comica. «In Italia pare che ridere sia ancora considerato sconveniente. Certamente è più difficile farlo, ma il risultato merita».
Il suo metodo comico è quello del passo indietro: microfono stretto in mano, postura immobile, Rapone toglie per riempire, usa la pausa come contenuto e alla fine, quando arriva la battuta costruita con pazienza segna, come un gol. «Io ogni settimana vado in libreria e sfilo la sovracopertina dei Diari di Mussolini e la metto al posto della sovracopertina del Diario di Anna Frank e viceversa. E la cosa devo dire che funziona, perché i fascisti iniziano a rendersi conto degli orrori della guerra e la gente normale inizia a pensare che alla fine, dopotutto, Anna Frank ha fatto anche cose buone». Questa ricetta per contrastare il fascismo dilagante era in una puntata di “Battute”, il folle esperimento su Rai Due di Giovanni Benincasa.
Ma la tv lo ha accolto in diverse occasioni, a partire dalla Gialappa’s con cui ha stretto un sodalizio dai tempi lontani. «Quello che più mi racconta è il monologo sul palco, i personaggi li propongo solo in televisione anche se alla fine sono sempre io, con la parrucca. Provo a far uscire la banalità di certe situazioni, mi diverte la parodia delle “Iene”, dove chiamano il vip di turno che deve fare un monologo su una qualche tragedia di cui sente l’esigenza di parlare. Ora non voglio banalizzare, ma qualcosina sembra un po’ forzata. Il fatto che la cantante Annalisa sia laureata in fisica onestamente non mi sembra che basti a considerarla esperta di bomba atomica. Così provo a rispondere a modo mio». Sempre con cautela, perché c’è chi si lamenta che non si può più dire niente. «Magari fosse. In Italia il politicamente corretto riguarda solo la religione, per il resto puoi dire qualunque infamità e passa tutto. Guarda Pio e Amedeo: fanno un monologo in prima serata su Mediaset inzeppato di insulti razzisti e omofobi e non succede niente. Anche la politica avalla questo tipo di pensiero. E quando fai notare che certe frasi colpiscono persone reali, che esistono veramente e che magari possono star male per una battuta, la risposta è sempre un’alzata di spalle infastidita».
Quindi un comico è ancora testimone del tempo che abita e sente l’aria che cambia. Se cambia. «Dal mio punto di vista oggi è molto divertente perché Berlusconi era diventato talmente comico che non potevi superarlo. Invece ora il potere è nelle mani di persone estremamente ridicole e spesso inadeguate, ma che oltretutto si prendono molto sul serio. E mentre parlano all’improvviso gli scappa un saluto romano. Abbiamo un’alta carica dello Stato che giustifica il fatto di avere il busto del Duce a casa perché è un regalo. Quindi se mi regalano quello di Bin Laden che faccio, me lo tengo in salotto? Chissà se arriverà un punto in cui non si vergogneranno più e si sentiranno liberi di dire qualsiasi cosa».
Ma c’è da preoccuparsi? «Penso che prima o poi la tempesta passerà. Un tempo era assurdo pensare che le donne potessero votare. Oggi abbiamo una donna conservatrice presidente del Consiglio, che se fosse nata nel momento in cui c'era ancora più conservatorismo non sarebbe neanche stata presa in considerazione. Come direbbe il mio Galeazzo Mussolini nel “Gialappa’s show”, ha fatto la scalata da donna ed è arrivata al livello uomo». Tutto ciò che c’entra con la tv? «La satira sul governo in tv è più efficace. Chi ti viene a vedere a teatro già è d'accordo con te mentre in televisione parli anche a chi la pensa diversamente. E io non voglio dare al pubblico quello che si aspetta, sennò sono bravi tutti. Io vengo da una famiglia ultraconservatrice e quando vedevo “Mai dire gol” o i programmi di Serena Dandini, realizzavo che stavo ascoltando per la prima volta delle cose ben diverse da quelle che giravano per casa mia e che forse i miei genitori non avevano sempre ragione».
Quindi, con buona pace del ministro della Cultura Alessandro Giuli, quello del comico alla fine è un lavoro che serve. «Forse sì, in qualche modo penso sia utile arrivare a persone giovani che non si sono mai poste certi problemi, mi fa sentire di poter influire, magari un minimo. Poi se fai qualcosa in più è grasso che cola». Qualcosa di più, certo. Ma da dove si comincia? «Per tornare a essere una società civile non serve tanto. Basterebbe ascoltare quello che ti dicono gli altri. Abbiamo il diritto di fare casino ma anche il dovere di imparare a stare in silenzio. Viviamo in un mondo dove siamo tutti maniaci di protagonismo. Servirebbe fare un passo indietro e dire “io ascolto”. Ecco, secondo me quello può davvero essere un atto rivoluzionario». Bene, bravo, bis. Ma Stefano Rapone, una domanda: come stai? «Stanco, sto stanco».