What’s going on? Se lo chiedeva tanti anni fa Marvin Gaye in un pezzo memorabile (e riascoltarlo non fa mai male). Era il 1971 e si riferiva ai problemi del mondo. Molto più modestamente oggi la stessa domanda potremmo rivolgerla alla musica, che del mondo se ne frega nella maniera più assoluta e gioiosamente convinta.
Abbiamo appena assistito all’ennesimo can can circense dell’Eurovision dove è bandita ogni allusione al mondo esterno. Per carità, il contest è molto divertente, nulla da dire, ma c’è mancato un pelo che vincesse la cantante che era in gara per Israele, senza che nel frattempo nessuno si sia fatta alcuna domanda su nessuna questione. È proprio normale che a Basilea si presenti un trio ucraino, gli Ziferblat, mentre a casa loro c’è l’inferno della guerra? È normale che una cantante israeliana, scampata all’attentato del 7 ottobre, si presenti a cantare «new day will rise, life will go on, everyone cries, don’t cry alone, darkness will fade, all the pain will go by...» senza un commento, una precisazione, un riferimento a quello che sta succedendo nella striscia di Gaza, come fosse la cosa più normale del mondo, e tutto questo tra un lazzo, un Topo Gigio e una cavalcata di valchirie finniche?
Non voglio dire con questo che non dovrebbero essere presenti: non è questione di censurare qualcuno, dico solo che non dovrebbe passare tutto sotto silenzio, come se le canzoni fossero altrove, un affare che non riguarda la realtà, un’astrazione. E pensate cosa sarebbe successo se la cantante israeliana avesse vinto, sarebbe scoppiato un putiferio, inevitabilmente, e la situazione avrebbe evidenziato una contraddizione forte. Se una canzone partecipa a una gara, bisogna mettere in conto che potrebbe vincere, e se ci si augura che non succeda perché sarebbe imbarazzante, vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato all’origine.
In altri tempi si poteva giocare con più leggerezza con queste manifestazioni, perché erano dichiaratamente una cosa “altra” e potevamo identificarci in altre musiche, c’era la possibilità di scegliere. Oggi questa possibilità non c’è, oppure è molto ridotta. Viviamo in un sistema musicale sbilanciato, deformato, dopato da meccanismi che favoriscono la produzione di musiche leggere, per non dire trasparenti, e che evitano con determinazione di entrare nelle cose del nostro tempo di raccontarcelo, di guidarci nel capire e decifrare le nostre emozioni, le nostre paure, i dubbi, le incertezze del futuro. Ma a furia di negare anche quel minimo di responsabilità che la musica deve avere nei confronti della realtà finiremo per accettare tutto. E in quel caso l’Eurovision, invece di essere una simpatica singolarità, sarà una chiassosa normalità.