Abbiamo disegnato il referendum (e la brutta campagna elettorale che l’ha preceduto) in forma di cruciverba. Verticali, come le ragioni del sì e del no, discendenti dall’Alto del possedere la verità, senza dubbi, sfumature, dialogo. Orizzontali come la rabbia di un popolo stremato dai toni sempre alti, lirici, patetici, eroici, melodrammatici di un referendum, che ha finito per somigliare all’Italia che conosciamo e che vogliamo lasciarci alle spalle: parole. Parole crociate, che si intersecano ma non si comprendono. Perché in verità sono crociate fatte di parole. Incrociamole per l’ultima volta, dunque, in questo enigma che si scioglie dopo solo qualche istante di riflessione (così come sarebbe bastato a ognuno di noi per scegliere liberamente come votare). Un enigma che svela sulla copertina dell’Espresso l’unico titolo possibile: “Andiamo avanti”.
Più che un titolo, un’invocazione democratica, laica, l’ultimo singulto da cittadini di un Paese che è rimasto in apnea per mesi in attesa del responso della sibilla referendaria. E che ha concentrato l’energia politica come fosse un laser puntato dritto e soltanto sull’avversario, energia dispersa, mentre milioni di italiani attendono scelte per la nostra vita di tutti i giorni e per il nostro futuro.
Il cruciverba a schema libero, come libero è il voto democratico, è dunque la metafora di questi bislacchi ultimi mesi. Con la stessa libido pantagruelica di verità assolute che ha animato il sì e il no, anziché discutere di Costituzione abbiamo costruito falsi applausi in Parlamento, bugie, enfasi, rabbia, sillogismi illogici alla faccia del popolo sovrano. Ci siamo ubriacati di referendum e ora ci troviamo affetti da una patologia cronica: il referendum interiore, il manicheismo rabbioso, la sindrome del copista, capace solo di ricalcare tesi di altri, riproponendo a ogni occasione un modello di scontro politico, un circo identico a se stesso che cambia soltanto città. Copiamo gli slogan del testimonial a noi più caro, demoliamo a insulti quelli dell’altro, per “asserire”, e non per “riferire” una ragione che non è della democrazia. L’asserendum è la politica dei tempi nostri, il fare fuoco sulle idee altrui, nell’illusione che una soluzione chiavi in mano esista e contenga in sé non solo un punto di vista su cui aprire il confronto in Parlamento e nel Paese, bensì la ricetta finale. Siamo piccoli ciarlatani capaci di dare salute, soldi, sicurezza, futuro. Siamo i pifferai dell’eterna giovinezza democratica, che non è capace, in quanto nostalgica, di comprendere i tempi che guida, di mettere i piedi dentro la terra infuocata dell’Europa neonazionalista e del mondo globale in rivolta contro se stesso.
Macché finita. Magari. È solo cominciata. Ci aspetta un inverno fra grida truffaldine e falsa mitologia sul vecchio e il nuovo. Ci aspetta un “trumpismo” all’italiana, che si materializza nel momento in cui un Paese non si rende conto che la distanza di pensiero, la varietà di opinione è - essa stessa - radice di democrazia. Ciò che ci rende diversi dalle dittature, dove - lì sì - il pensiero è uniformante e proferisce verità assolute.
Non è il risultato del referendum ciò che mi spaventa, né ciò che intimorisce l’Italia o che mette a rischio il nostro futuro. Non è Bankitalia con le sue previsioni. Non l’Ocse o il giornale straniero di turno. È l’impressione che la difesa delle proprie idee, l’ideale massimo del dibattito politico, anche aspro, abbia lasciato il posto a uno scontro a fuoco fine a se stesso. Rumore di fondo che annienta il dibattito, lo sotterra. E che ci lascia udire solo alcune delle parole: l’ennesima miriade di promesse contrapposte, che dalle prossime ore non riguarderanno più la Carta, ma direttamente la campagna elettorale anticipata che sta per partire nel Paese dei 63 governi in 70 anni e delle urne sempre aperte.
Che dire? Risolviamo il cruciverba alla svelta perché questo climax drammaturgico ha stomacato il pubblico, che non si appassiona più. Questi toni da bar globale, senza la risata finale che almeno al bar si fa, sono lo specchio di ciò che siamo diventati. Burattini di un carrozzone politico buono per ogni occasione, forse questo sì - e non la riforma - l’insulto più grande che si poteva fare ai padri costituenti da parte di una generazione di figli e figliastri ricostituenti. Impegnati nella loro danza della pioggia. Ignari che sull’Italia piova ormai da anni. Senza bisogno di loro.
Twitter @Tommasocerno