Lentezze. Ritardi. Miopie. Le carte rivelano che via Nazionale ?non è stata presente come doveva sul malaffare degli istituti di credito

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Il buco nero che ha inghiottito i risparmi di quasi 150 mila italiani non è nato d’improvviso la sera del 22 novembre, quando il governo ha varato il decreto che ha messo in sicurezza, a spese degli azionisti e di una parte dei titolari di obbligazioni, i quattro istituti locali di media grandezza, Banca Marche, Banca Etruria, la Cassa di Chieti e quella di Ferrara, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali.

La valanga di guai che ha infine reso inevitabile l’intervento dell’esecutivo, per quanto discutibile e tardivo, parte da molto lontano. A innescare il disastro sono stati anni e anni di gestione irresponsabile e forse truffaldina (diverse inchieste penali sono in corso) da parte di un manipolo di manager e amministratori, con l’avallo di sindaci e revisori dei conti.

A leggere le carte, e i bilanci, che scandiscono le tappe di questa storia di malaffare, si scopre però dell’altro. Emerge quella che appare come una serie di ritardi, errori e omissioni da parte degli organi chiamati a vigilare sul credito e sul risparmio. In prima linea la Banca d’Italia. E poi la Consob, la commissione di controllo sulle società e la Borsa.

Decine di ispezioni, richiami, multe: tutto inutile, a quanto pare. Gli artefici dei crac, presidenti, amministratori delegati, direttori generali, sono rimasti al timone fino a quando il naufragio era ormai inevitabile. È il caso di Massimo Bianconi, dal 2004 al 2012 dominus incontrastato di Banca Marche, al quale nell’estate del 2011 Bankitalia ha addirittura permesso di tornare in sella a distanza di un mese dalle dimissioni, mentre i conti dell’istituto già vacillavano.

Eppure lo stesso Bianconi era già stato sanzionato due volte dalla Vigilanza: nel 2011 per «carenze nell’organizzazione e controlli interni» e nel 2007 per «carenze nell’istruttoria, erogazione e controllo del credito». Quando finalmente nell’estate 2012 il manager viene costretto a farsi da parte, lascia 1,3 miliardi di perdite, di cui però, a quanto pare, nessuno si era accorto prima.

SE LE AUTORITÀ NON PARLANO FRA LORO

Bankitalia si difende spiegando che è stato fatto tutto quanto possibile nei limiti dei poteri attribuiti alla Vigilanza dalla legge. E anche il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ha preso le parti dei controllori sotto accusa. Fatto sta che, documenti ufficiali alla mano, è difficile affermare che Banca d’Italia e Consob abbiano brillato per tempestività ed efficienza. Anzi, a ben guardare, si scopre che le due authority non sono neppure riuscite a coordinarsi tra loro, come dimostra per esempio questa vicenda ricostruita da “l’Espresso”.

Per raccontarla bisogna fare un passo indietro nel tempo ai primi di gennaio del 2012 e spostarsi a Jesi, al quartier generale di Banca Marche. In quei giorni l’istituto di credito, già in grave difficoltà, si stava preparando a lanciare un aumento di capitale per raccogliere 180 milioni di euro tra i suoi 40 mila azionisti. Per varare l’operazione serviva un prospetto informativo che per legge deve essere approvato dalla Consob.

I funzionari dell’authority presieduta da Giuseppe Vegas chiedono tra l’altro a Banca Marche di inserire nel prospetto eventuali informazioni rilevanti in merito agli esiti di una recente ispezione disposta da Bankitalia nell’istituto di Jesi. «Niente di nuovo», è la risposta. E così i risparmiatori, chiamati a sottoscrivere l’aumento, vengono tenuti all’oscuro dei pesanti rilievi formulati dalla Vigilanza sulla gestione di Bianconi & C. Nel loro rapporto, già alla fine del 2010, gli ispettori segnalavano tra l’altro «diffuse carenze nel sistema dei controlli interni» oltre a una «rilevante esposizione ai rischi di natura creditizia e finanziaria».

Nell’ottobre del 2015, a più di tre anni di distanza da quei fatti, Consob ha multato (per poche decine di migliaia di euro ciascuno) gli amministratori di Banca Marche e il direttore generale Bianconi. Nel frattempo però, con l’azzeramento del valore delle azioni, i risparmiatori hanno perso per intero il loro investimento.

Resta aperto un interrogativo, di gran lunga il più inquietante di tutta la vicenda. Per quale motivo la Consob non ha richiesto fin da principio a Banca d’Italia le informazioni rilevanti sull’attività ispettiva svolta in Banca delle Marche? A prima vista sembra questa la strada più logica da seguire, piuttosto che bussare alla porta di un consiglio di amministrazione che aveva tutto l’interesse a minimizzare i propri guai.

Eppure, secondo quanto emerge dai documenti ufficiali, l’autorità di Vegas avrebbe avuto accesso agli atti di Bankitalia soltanto nel 2013, quando ormai l’aumento di capitale si era concluso da oltre un anno. L’episodio dà la misura di come funzioni il coordinamento tra le due autorità di vigilanza finanziaria, ciascuna gelosa del proprio orticello a tal punto da non comunicare con l’altra.

A Ferrara invece, gli ispettori mandati da Roma sono arrivati nella locale cassa di risparmio (Carife) nel 2009. La barca ormai faceva acqua da tutte le parti, ma la Vigilanza se n’è accorta solo dopo che i bilanci avevano ormai accumulato oltre 400 milioni di prestiti deteriorati, cioè difficili da recuperare. Risultato: il direttore generale Gennaro Murolo viene messo alla porta, non senza avere ottenuto dalla banca una garanzia scritta (in seguito annullata) che lo metteva al riparo da eventuali azioni di rivalsa nei suoi confronti.

LE AZIONI? ORA VALGONO ZERO

Bankitalia benedice la nuova gestione, ma i successori di Murolo non fanno granché meglio del manager caduto in disgrazia. Nel giro di due anni Carife si trova un’altra volta sommersa dalle perdite. Il bilancio 2012 va in rosso per 104 milioni, con le rettifiche su crediti che passano da 45 a 228 milioni, una somma enorme per un istituto delle dimensioni della cassa ferrarese.

Ma c’è di peggio. Nell’estate del 2011 Carife vara un aumento di capitale da 150 milioni. Da notare che il socio più importante, cioè la locale fondazione bancaria, non partecipa all’operazione. A pagare il conto, quindi, sono quasi 30 mila piccoli azionisti. Circa 5 mila risparmiatori vengono convinti per la prima volta a comprare titoli della cassa. Nessuno li aveva avvertiti che i conti reali dell’istituto erano molto peggiori di quel che appariva nei documenti ufficiali di bilancio. Anzi, è probabile che molti di questi investitori si siano sentiti in qualche modo rassicurati dal ribaltone al vertice dell’anno prima. Un ribaltone accompagnato da quella che era stata presentata come una pulizia nei conti avvenuta su impulso di Bankitalia. E invece no. Passano meno di 12 mesi e arriva un’altra mazzata, quella definitiva.

L’ennesima ispezione della Vigilanza, chiusa a settembre del 2012, alza il coperchio su nuove ingenti perdite. A maggio del 2013 Carife viene commissariata. I titoli comprati nel 2011 a 21 euro diventano carta straccia e con il decreto del governo del 22 novembre i risparmiatori hanno perso per intero il loro investimento. Del resto già un anno fa, le azioni della cassa ferrarese venivano scambiate a quotazioni non superiori a quattro euro.

Com’è possibile, si chiedono adesso i soci, che Banca d’Italia sia stata costretta a tornare sui suoi passi già nel 2012, dopo il primo avvicendamento al vertice di fine 2009? E perché mai nessuno tra gli organi di vigilanza ha dato l’allarme sui conti prima dell’aumento di capitale del 2011? Sembra improbabile, infatti, che le maxi perdite del 2012 siano emerse nel giro di un anno. Fatto sta che nel 2011 la Consob diede via libera a un prospetto informativo che parlava di una Carife incamminata sulla via del rilancio.

Un copione simile è andato in scena anche ad Arezzo. Nell’estate 2013 Banca Etruria riuscì a piazzare tra i 60 mila soci nuove azioni per 100 milioni di euro, cui vanno aggiunte due emissioni di obbligazioni, le famigerate subordinate, per un totale di 110 milioni. Quei soldi servivano per puntellare un bilancio già in grave difficoltà.

La Banca d’Italia conosceva bene la situazione, visto che i suoi ispettori da anni facevano la spola con la Toscana. Nell’estate 2013, mentre andava in porto l’aumento di capitale, erano in corso nuovi accertamenti. Da tempo, insomma, Banca Etruria era un istituto sotto tutela, sorvegliato a vista dalla Vigilanza. Eppure per decidere il commissariamento, scattato nel febbraio del 2015, è servita un’altra ispezione a novembre del 2014. Nel frattempo i conti hanno continuato a viaggiare in perdita, zavorrati da prestiti a rischio che ammontavano a oltre un terzo dell’intero portafoglio crediti.

QUEL MATRIMONIO FRA ISTITUTI IN CRISI

Banca d’Italia premeva per una fusione, un’operazione che portasse il disastrato istituto aretino tra le braccia di un concorrente, possibilmente più solido. L’unica offerta credibile arriva dalla Popolare Vicenza. Nei primi mesi del 2014, quando inizia il negoziato, anche l’aspirante compratore navigava in pessime acque. Il disastro però emergerà solo un anno dopo.

«Va tutto benissimo», garantiva all’epoca Gianni Zonin, presidente della banca veneta. Dalla Vigilanza, che solo un anno prima aveva completato un’ispezione a Vicenza, non arrivano obiezioni alle nozze con Banca Etruria. Alla fine, però, l’operazione non va in porto. Ad Arezzo i poteri locali fanno le barricate. E non è una sorpresa. La fusione con un altro istituto avrebbe spostato i centri di comando lontano dalla Toscana. E allora addio poltrone in consiglio di amministrazione con i relativi ricchi stipendi. Per non parlare dei generosi prestiti concessi ad aziende della zona, agli amici e agli amici degli amici.

Dalle carte dell’ultima ispezione di Bankitalia emerge che ben 185 milioni di prestiti erano destinati a società in vario modo legate a 13 amministratori e cinque componenti del collegio sindacale di Banca Etruria. Come dire che gli amministratori dell’istituto toscano avevano molto da perdere e ben poco da guadagnare dalle nozze con Vicenza.

Già nel 2014 la Vigilanza aveva chiesto e ottenuto il cambio della guardia nelle posizioni di vertice. Oltre al direttore generale Luca Bronchi, in carica dal 2008, se ne va così anche il presidente Giuseppe Fornasari. Al posto di quest’ultimo è stato promosso il suo vice Lorenzo Rosi. Il quale a sua volta ha lasciato l’incarico a due nuovi vicepresidenti: Alfredo Berni, per molti anni direttore generale, e Pier Luigi Boschi, il padre del ministro Maria Elena - ora nel mirino dell’opposizone con una mozione di sfiducia da parte dei Cinque Stelle - pure lui in consiglio di amministrazione fin dal 2011.

Il giro di poltrone sembra studiato apposta per non cambiare nulla, in puro stile gattopardesco. A maggio 2014 l’assemblea dei soci di Banca Etruria ratifica le nomine. La Vigilanza al momento non fa una piega, salvo commissariare l’istituto aretino otto mesi dopo, a febbraio 2015. Il decreto del governo, un mese fa, ha chiuso la partita. La vecchia Banca Etruria è arrivata al capolinea. Gli azionisti hanno perso tutto. Bankitalia dice di aver fatto tutto il possibile. Evidentemente quattro ispezioni in cinque anni non sono bastate per capire per tempo quello che stava succedendo ad Arezzo.

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