Francesco Gaetano Caltagirone? L’uomo più liquido d’Italia. Da un paio di decenni il costruttore e immobiliarista romano passa da un affare all’altro accompagnato dalla fama di re del cash. Un fiume di contante, almeno un miliardo di euro, che scorre da un angolo all’altro del gruppo di famiglia, con quattro aziende quotate in Borsa a cui vanno aggiunte decine di altre sigle, satelliti minori di un sistema a dir poco complesso. Tutto quel denaro può finanziare le ambizioni più diverse, perfino quella di ribaltare gli equilibri del capitalismo nazionale partendo dalla cima, dalle Assicurazioni Generali che da tempo immemorabile sono al tempo stesso la preda più ambita e la stanza di compensazione dei poteri forti del Paese.
Per questo, un paio di settimane fa, ha fatto scalpore la notizia che Caltagirone, vicepresidente e secondo azionista, non avrebbe partecipato all’annuale assemblea della compagnia di Trieste, un appuntamento che anche in tempi di pandemia, con i soci collegati solo da remoto, resta una sorta di messa cantata della finanza nostrana. L’assenza è stata letta come il segnale di una rottura ormai insanabile con Mediobanca, che con una quota di poco inferiore al 13 per cento, è il socio più influente della multinazionale delle polizze. Difficile pensare a una scalata, visto che l’ipotetica preda vale in Borsa qualcosa come 26 miliardi, somma alla portata solo di pochi colossi finanziari internazionali. Caltagirone, però, forte del suo pacchetto del 5,6 per cento, sembra comunque intenzionato a cambiare le regole del gioco a Trieste. È questo l’obiettivo finale di una strategia sottile che passa dalla rimozione dell’amministratore delegato Philippe Donnet per poi arrivare alla resa dei conti con la banca d’affari che fu di Enrico Cuccia.
Nessun blitz, niente attacchi frontali. Piuttosto una guerra di posizione in cui il costruttore e finanziere capitolino, 78 anni compiuti lo scorso marzo, ha trovato strada facendo l’appoggio di un altro miliardario come Leonardo Del Vecchio, 86 anni il prossimo 22 maggio. I due soci si muovono da tempo come alleati di fatto, anche se entrambi sostengono di giocare una partita in proprio. Il patron di Luxottica controlla una quota del 4,9 per cento e pure lui sembra sempre più insofferente dei vecchi riti del salotto buono, di cui, peraltro, proprio come Caltagirone, è ospite gradito ormai da molto tempo. Entrambi sono sbarcati nell’azionariato di Generali nel lontano 2007 e da allora hanno avuto un ruolo attivo nei ribaltoni che si sono succeduti a Trieste.
Nel 2012 il consiglio sfiduciò l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto e quattro anni dopo venne congedato anche il suo successore, Mario Greco. Finora, però, nessuno aveva mai messo in discussione così apertamente il ruolo di Mediobanca. Ormai da un decennio, sotto la guida dell’amministratore delegato Alberto Nagel, la banca d’affari milanese ha cambiato pelle e strategie, ma ancora adesso le Generali rappresentano la partecipazione di gran lunga più importante in portafoglio, e anche quella più redditizia. Solo quest’anno, per dire, la compagnia triestina ha versato dividendi per circa 300 milioni al suo principale azionista, cioè Mediobanca. Caltagirone, invece, ha incassato una cedola da 130 milioni e la sua quota ora vale oltre 1,5 miliardi, circa il 60 per cento in più rispetto ai minimi del marzo 2020, nel pieno della crisi borsistica innescata dalla pandemia.
Allargando l’orizzonte, si scopre però che negli ultimi cinque anni, da quando il numero uno Donnet ha preso le redini del gruppo, Generali non è riuscita a tenere il passo in Borsa rispetto a due suoi diretti concorrenti sui mercati internazionali come Allianz e Zurich. Quest’ultima ha fatto segnare un rialzo dell’80 per cento circa da maggio del 2016, mentre il gigante tedesco è cresciuto del 57 per cento. Trieste invece nello stesso arco di tempo ha guadagnato poco più del 30 per cento. Va detto che le scelte dei grandi investitori internazionali sono state condizionate anche dalla crisi del sistema Italia, che pesa sulla compagnia tricolore se non altro per effetto dei 60 miliardi di Btp custoditi in portafoglio.
L’andamento delle quotazioni spiega però solo in parte l’insofferenza di Caltagirone per la gestione recente di Generali. In gioco ci sono gli equilibri in consiglio di amministrazione e quindi, di fatto, anche il controllo del gruppo. Nella riunione del board del 29 aprile, subito dopo l’assemblea dei soci, il costruttore romano spalleggiato da Romolo Bardin, stretto collaboratore di Del Vecchio, è andato dritto al punto attaccando frontalmente Mediobanca, rappresentata dall’altro vicepresidente di Generali Clemente Rebecchini, direttore centrale della banca d’affari. Lo scontro covava sotto la cenere da tempo. Nei mesi scorsi il numero uno Donnet si è già trovato ad affrontare un nutrito fuoco di sbarramento da parte degli amministratori in almeno un paio di occasioni. La più recente solo poche settimane fa, quando il consiglio si è spaccato sull’acquisizione delle attività di Axa in Malesia.
Ben più clamoroso, nell’autunno scorso, il dietro front sulla vendita di Banca Generali, destinata proprio a Mediobanca. L’affare si è arenato dopo lo stop nel comitato operazioni strategiche di Trieste, di cui fanno parte oltre a Donnet, Caltagirone e Rebecchini, anche Bardin e Lorenzo Pellicioli, in rappresentanza di un altro socio di peso come il gruppo De Agostini. In sintesi, Trieste si preparava a cedere una delle sue attività più profittevoli nel settore del risparmio gestito a tutto vantaggio del primo azionista della compagnia. Niente di fatto. Lo stesso Nagel, alla fine, ha preferito lasciar cadere l’operazione a lungo studiata. La vicenda però ha dato fiato a chi, come Caltagirone, non perde occasione di denunciare il ruolo di Mediobanca, che - questa è l’accusa - sfrutterebbe il suo ruolo di primo azionista per ottenere vantaggi impropri dalla gestione di Generali a danno degli altri azionisti, grandi e piccoli.
Se fino a qualche mese fa i dissensi sembravano ricomponibili nell’ambito di una normale dialettica tra soci, giunti a questo punto la strada del negoziato si fa sempre più stretta. E non è solo una questione di parole, per quanto pesanti. Ormai da un paio di anni sia Del Vecchio sia Caltagirone hanno investito centinaia di milioni per rafforzare la loro posizione. Il costruttore romano ha messo sul piatto almeno mezzo miliardo di euro per salire nel capitale delle Generali dal 3,55 per cento del 2018 fino all’attuale 5,65 per cento. Il patron di Luxottica è invece andato all’attacco di Mediobanca, rastrellando in Borsa il 13 per cento circa del capitale della banca d’affari. Quanto basta per diventare di gran lunga il primo azionista, superando il patto di consultazione tra i grandi soci dell’istituto, forte di un 12,6 per cento. Nell’ottobre scorso, all’ultima assemblea dei soci, lo scalatore non ha fatto pesare il suo nuovo ruolo nell’azionariato, accontentandosi di appoggiare la lista di minoranza per il consiglio di amministrazione, quella presentata dagli investitori istituzionali. Non è detto però che il copione si ripeta anche il prossimo autunno. Anche perché nel frattempo la quota di Del Vecchio potrebbe aumentare ancora fino al 20 per cento, tetto massimo della partecipazione a cui è stato autorizzato dalla Banca centrale europea. Non è una sorpresa, a questo punto, che anche Caltagirone si sia mosso nella stessa direzione, comprando in Borsa una quota dell’1 per cento di Mediobanca.
La notizia del nuovo blitz, costato circa 80 milioni, risale ai primi di marzo, giusto per riscaldare l’atmosfera in vista dell’assemblea di Generali del mese successivo. La resa dei conti, però, è attesa nei prossimi mesi, quando prenderà il via il confronto tra azionisti in vista della nomina del nuovo consiglio di amministrazione. In gioco c’è la poltrona di Donnet, in scadenza la prossima primavera, ma al momento non c’è accordo neppure sul metodo con cui verranno scelti gli amministratori. Lo statuto sociale approvato l’anno scorso in assemblea prevede che il consiglio uscente, e non i soci come è successo finora, possa presentare una propria lista. Caltagirone a suo tempo approvò la modifica statutaria, ma ora, a quanto pare, non è più d’accordo e ha già fatto capire che darà battaglia. Secondo Mediobanca, la nuova procedura garantirebbe una maggiore trasparenza nei criteri di scelta degli amministratori, a vantaggio di tuti gli azionisti. Nagel dovrà convincere anche Caltagirone. E non è detto che ci riesca. L’estate si preannuncia molto calda, a Trieste.