La guerra preventiva. L'esecuzione di Saddam. Guantanamo. Non sono questi gli Usa che amo. Un articolo del sindaco di Roma

Vedo la mia America come un gigante fragile e stanco, ma anche rabbioso e aggressivo. Vedo la mia America cattiva e frustrata... Ritrovo un'intervista di qualche mese fa al grande scrittore Philip Roth, e mi soffermo su queste sue parole. Poi vado avanti, e mi accorgo che il giudizio arriva all'indomani dell'esecuzione di Saddam Hussein.

"Beninteso", dice Roth, "Saddam meritava la cattura e la condanna, ma quell'impiccagione buttata in pasto alle televisioni, al sadismo di massa, è uno spettacolo davvero barbaro, incivile, di chi usa la morte, l'orrore, come strumento di riscatto dai propri fallimenti, dai propri fantasmi interiori".

Andare con la mente a Guantanamo, ai prigionieri incappucciati di Abu Ghraib, ai detenuti in attesa dell'esecuzione in un braccio della morte di un penitenziario americano e poi in un campus universitario della Virginia, dove trentadue ragazzi vengono uccisi da un loro coetaneo armato della sua rabbia e di armi comprate con la stessa facilità con cui si compra un qualsiasi altro prodotto in un supermercato, è questione di un attimo.

E in un attimo arriva, inevitabile, la domanda: è questa l'America? È questo il suo vero volto, quello che ormai si è affermato definitivamente su tutto quanto ho imparato a conoscere, ad apprezzare, a criticare quando credevo che così fosse giusto e ad amare per mille altri motivi legati alla sua storia, alla sua cultura, agli uomini e alle idee politiche che ha saputo esprimere e che hanno determinato il cammino del mondo?

La mia risposta è no. Non c'è nulla di definitivo in quel che sta avvenendo, nel ruolo che gli Stati Uniti hanno assunto, nell'immagine che oggi danno di sé, nel sentimento di paura che sembra dettare le loro mosse in politica estera e che attanaglia, dividendole, le sue comunità. Ripenso alle parole che mi ha detto Kerry Kennedy, figlia di Bob, in una delle sue ultime visite a Roma: "L'America è la più grande potenza economica e militare del pianeta, ma la sua vera forza è sempre stata negli ideali che rappresenta: la democrazia, la libertà, i diritti civili. Questo è il motivo della sua grandezza". Continuo a credere che sia così, e che così l'America potrà tornare ad essere agli occhi del mondo.

La fragilità e la stanchezza di cui parlava Roth ci sono, c'è la gigantesca insicurezza del dopo 11 settembre, c'è la difficoltà di recuperare una strategia efficace e credibile in Iraq e più in generale sul piano internazionale, così come c'è l'esigenza di riunificare un Paese che al suo interno appare diviso come da tempo non accadeva. Ma la cosa importante è che di questo, e della necessità di invertire radicalmente rotta rispetto all'attuale direzione di marcia, esiste una diffusa consapevolezza, in particolare da parte dei due grandi sfidanti alle primarie dei democratici americani, Barack Obama e Hillary Clinton.

Non è per partigianeria, che faccio i loro nomi. O meglio: non è per semplice trasposizione degli schieramenti politici da questa all'altra parte dell'oceano. Il fatto è che c'è una lunga tradizione dell'America democratica che nel corso della storia ha rappresentato nel modo migliore ciò di cui più che mai abbiamo bisogno anche oggi: speranza contro paura, unità contro divisione, coinvolgimento contro esclusione, cooperazione internazionale contro isolazionismo oppure unilateralismo. C'è una definizione, usata da Bill Clinton nella sua prima campagna elettorale, quella del 1992, che spiega bene il senso di tutto questo. La definizione è: "Siamo tutti sulla stessa barca", e sta a significare la volontà di costruire una sola e salda comunità, un'America unita. Unita al proprio interno, lontana da ogni forma di darwinismo sociale e capace di aumentare il benessere di tutti, e non solo di chi possiede già molto e dei privilegiati. Unita al resto del mondo, lontana dalla scelta di puntare tutto sull'azione militare unilaterale e attenta a cercare un modo di agire collettivo e in grado non di indebolire, ma di rafforzare le norme internazionali.

È quando ha saputo fare questo, che l'America ha saputo avere leadership morale oltre che potere, che è sempre stata un grande riferimento per tutte le persone libere del mondo.

Così accadde per l'America di Roosevelt e del New Deal, che all'indomani del crollo del '29 e nella grande crisi dei primi anni Trenta seppe trovare dentro se stessa un eccezionale spirito di unità e di solidarietà, che si tradusse, a livello legislativo, nel sostegno ai lavoratori con la previdenza sociale e con indennità di disoccupazione, mentre programmi e investimenti statali permettevano la ripresa economica e l'uscita dalla depressione. Era un'America che sacrificò una generazione per liberare noi europei, noi italiani, che per colpe nostre, e non di altri, eravamo caduti nel baratro del fascismo e del nazismo, della Seconda guerra mondiale.

Così accadde per l'America di John Kennedy, che sapeva essere attenta alle disuguaglianze, agli esclusi, agli 'strappi' che si creano nella società e che devono essere ricuciti, che aveva in sé l'idea del governo per aiutare la gente, che si poneva il problema di interpretare quella domanda di diritti della popolazione nera che un anno dopo gli spari di Dallas si sarebbe tradotta nel Civil Right Act. Era un'America guidata da un insieme di visione e di pragmatismo tanto efficace da impedire che l'umanità intera sprofondasse nell'incubo nucleare, quando ci fu la crisi dei missili a Cuba. Se si riuscì è perché quel presidente non credeva si potesse 'prevenire' nulla con la guerra, e che la fermezza potesse, e anzi dovesse, convivere con il negoziato, con il dialogo, con la ricerca di soluzioni che sarebbero arrivate attraverso il coinvolgimento della controparte e della comunità internazionale. E d'altra parte la visione del mondo dei Kennedy era quella che avrebbe fatto dire a Robert, pochi anni dopo, che "un'America imbottita d'oro e protetta da una corazza impenetrabile, ma circondata da nazioni povere e disperate in un mondo caotico, non potrebbe né garantire la propria sicurezza, né perseguire il sogno di una civiltà dedita al perfezionamento dell'uomo".

Ecco: quella era un'America che sapeva sognare, che sapeva accendere speranze, che traeva la sua forza dai valori che incarnava, dal linguaggio che usava, dal modo in cui riusciva a portare lo sguardo oltre i confini, alla vita e al futuro del mondo. Era un'America che sapeva allontanare da sé la paura, aperta mentalmente sulle incertezze del futuro, pronta ad accettare le sfide del suo tempo.

Ora da qualche anno questo tratto si è appannato, fino a perdersi. C'entra la minaccia del terrorismo internazionale, c'entra la curva pericolosa che gli Stati Uniti e il mondo sono stati spinti a imboccare dopo l'11 settembre del 2001, certo. Ma c'entrano anche la linea scelta dall'amministrazione Bush, le sue decisioni, le opportunità mancate proprio dopo l'11 settembre, quando le manifestazioni di solidarietà con gli Stati Uniti attraversavano le strade persino delle città arabe, quando i giornali francesi titolavano 'Siamo tutti americani', quando l'intervento in Afghanistan fu compreso e sostenuto dalla comunità internazionale. Poi è arrivata la 'guerra preventiva' a cambiare tutto, e così oggi tiriamo le somme e vediamo che gli otto anni della presidenza Clinton sono stati gli ultimi in cui alla Casa Bianca abbiano abitato una politica estera nel segno del multilateralismo, arrivando ad un passo dalla pace in Medio Oriente, e una politica interna in grado di garantire coesione sociale e crescita economica, nella convinzione di dover offrire uguali opportunità per tutti e di non poter concedere privilegi a nessuno.

Ora, per usare un'efficace espressione di Robert Reich, tutto sembra invece essere determinato dal principio 'noi e loro': si è preteso di separare il bene dal male, l'America dal resto del mondo, e all'interno della stessa America, chi possiede potere, ricchezza e benessere da chi appartiene agli strati sociali più bassi e ha difficoltà ad andare avanti, così come chi ha valori e fede da chi non ha - non avrebbe - principi morali e religiosi. Ma non è un caso che un'America così abbia forza e potere senza però riuscire a esercitare quella leadership morale conosciuta in epoche passate. E non è un caso che chi si appresta, tra i democratici, a correre per la Casa Bianca non si limiti a proporre soluzioni e scelte alternative a quelle dell'attuale amministrazione, ma delinei un sistema di valori, una visione complessiva, che si reinserisce nel solco dell'America di Roosevelt, di Kennedy, di Clinton.

Quando Barack Obama sostiene che non esiste un'America da dividere in Stati rossi per i repubblicani e blu per i democratici, un'America bianca, una nera, una latina e un'asiatica, ma solo gli Stati Uniti, un unico Paese, un unico popolo, fa esattamente questo. Quando dice che i laici sbagliano se chiedono ai credenti di lasciare la religione fuori dalla porta prima di entrare nella politica e che in una democrazia pluralista le persone motivate dalla fede devono tradurre le proprie preoccupazioni in valori universali e non esclusivamente religiosi, fa esattamente questo. Quando capisce che il suo Paese è stanco delle lotte ideologiche combattute con toni aspri e si preoccupa di parlare a tutti, convinto che saliamo e cadiamo insieme, che ciò che unisce una comunità è più grande e più importante di ciò che la divide, e che "una casa divisa non può stare in piedi", come diceva Lincoln, fa esattamente questo: richiama la migliore tradizione della migliore America.

E lo stesso fa Hillary Clinton, che pure era stata favorevole all'intervento in Iraq, quando si rifà ai padri fondatori, che nella Dichiarazione d'Indipendenza si impegnarono a mantenere un giusto rispetto per le opinioni dell'umanità, per dire che l'America ha il compito di promuovere un nuovo internazionalismo, assegnando alla diplomazia la stessa importanza data alla potenza militare, combinando in politica estera il realismo che fa vedere il mondo com'è e l'idealismo che fa lottare insieme agli altri per renderlo migliore, perché "non abbiamo combattuto la Seconda guerra mondiale da soli, non abbiamo vinto la guerra fredda da soli e non possiamo affrontare la minaccia del terrorismo globale e le altre sfide cruciali da soli".

Se saranno questi i principi e i valori che di qui a non molto guideranno gli Stati Uniti sarà il tempo a dirlo, sarà la politica, saranno le scelte del popolo americano. Quel che sin d'ora si può dire è che se il mondo ha bisogno di apertura, di dialogo, di libertà e di democrazia, se ha bisogno di un altro modo di affrontare i problemi della povertà, del rispetto dei diritti umani, dell'ideologia che alimenta il terrorismo o del surriscaldamento globale, allora ha bisogno anche di un'America che sia, con i suoi ideali migliori, un riferimento per tutti noi.

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