«Ho sempre insegnato ai miei studenti che la prima cosa che bisogna fare è sopravvivere. Io sono una sopravvissuta». Esther Newton, che vive i suoi ottantadue anni con un’energia e una luce prodigiose, è stata una pioniera degli studi antropologici sul genere, mettendo in discussione i presupposti dello status quo sulla sessualità. Icona vivente del mondo butch, termine nato nel XX secolo per indicare una lesbica con atteggiamenti e abbigliamento socialmente classificati come mascolini.
Alla "butchness” ha dedicato tutta la sua vita, combattendo nei suoi saggi l’idea di naturalità del binarismo sessuale e dell’eterosessualità. Le sue pubblicazioni (ancora inedite in Italia) hanno rivoluzionato lo sguardo del mondo sulla comunità Queer. Arriva in Italia per la prima volta grazie alla XIV edizione di Some Prefer Cake – Bologna Lesbian Film Festival, il festival di cinema lesbico di Bologna creato da Luki Massa e Marta Bencich, che si è svolto a Bologna dal 23 al 25 settembre. Nel corso della rassegna è stato proiettato in anteprima “Esther Newton made me gay” (USA, 2022), documentario diretto dalla regista Jean Carlomusto: «Volevo raccontare una sopravvissuta, una persona che continua a fiorire e ci indica il posto dove andare. Dare uno spazio a Esther sullo schermo è un onore perché la vita di Esther ha creato così tanti spazi per noi, spazi queer e ha reso la nostra vita possibile». Questa è la prima intervista che l’antropologa lesbica che ha rivoluzionato e influenzato attivisti e studiosi di tutto il mondo rilascia in Italia. «Dove c’è ancora molto da fare», dice con un sorriso nella voce: «Non si rendono conto di quanto siamo meravigliosi».
Esther Newton lei ha lottato affinché le lesbiche, in particolare quelle mascoline, avessero uno spazio all’interno della teoria femminista. Cosa pensa oggi delle retoriche che vogliono escludere dal femminismo gli uomini trans e le donne trans?
«Se le donne che pongono obiezioni alle persone trans sono simili alle donne che lo fanno qui in America, cioè femministe non persone di destra, comprendo le ragioni storiche. Comprendo la difficoltà nel cambiare visione. Ma dovranno farlo. Le lesbiche mascoline hanno sempre fatto parte della cultura lesbica, soprattutto nell’America che conosco meglio e anche gli uomini trans. C’è una sorta di spazio maschile/mascolino per le persone che sono nate donne. Uomini trans e lesbiche mascoline (Ndr: cioè Butch, come si dice in gergo) sono parte dello stesso continuum».
Ha sempre detto che il suo sguardo da antropologa era rivolto sul “suo” pubblico. Il suo lavoro è sempre stato un modo per far progredire le cause della comunità arcobaleno. Qual è il progresso più importante?
«Sono una persona di 82 anni che ha fatto coming out nel 1959, posso dire che abbiamo fatto enormi progressi, immensi. E grazie ai nostri sforzi. Attraverso gli sforzi dei primi gruppi “omofili” prima di Stonewall, e ovviamente dopo Stonewall. La cosa più importante forse è stata quella di avere persone queer in posizioni di potere - o meglio avere persone queer progressiste che siano out, quello è molto importante. C’è anche un sacco di letteratura, di studi, adesso ed è pazzesco. Ma vorrei aggiungere una cosa».
Prego.
«Siamo ancora piuttosto marginalizzati, in molti modi. Non siamo veramente al punto in cui le persone etero e le persone cisgender si rendono conto di quanto siamo meravigliosi e di quale gigantesco contributo abbiamo dato all’umanità noi persone queer, in Occidente e in tutto il mondo».
Ha citato i moti di Stonewall, fondamentali per il movimento Lgbt. Eppure racconta che il momento che le ha cambiato la vita è stata la protesta organizzata dal Movimento di liberazione delle donne contro Miss America nel 1968.
«Assolutamente. Non mi sono mai sentita, o mai identificata con le altre donne. Mi vedevo come un’eccezione e pensavo di non avere niente in comune con la maggioranza. E durante la protesta di Miss America mi sono resa conto che c’era un gruppo di donne che stava protestando per la nostra situazione, inclusa la mia. Il Movimento femminista non ha accettato le lesbiche fin da subito, attenzione, anzi quello è successo dopo e grazie allo sforzo delle attiviste lesbiche. Ma quella protesta ha segnato una svolta in generale che guardava al femminismo e alla terribile e limitata posizione in cui si trovavano le donne. Per me una vera rivoluzione. Questa probabilmente è anche la ragione per cui mi identifico ancora come donna e non ho mai seriamente considerato di diventare un uomo trans o qualcosa del genere».
In un’epoca in cui l’antropologia si limitava allo studio di culture lontane, lei ha utilizzato l’approccio etnografico per studiare le culture delle drag queen nei drag bar del Midwest. Da qui è nato “Mother Camp: Female Impersonators in America”(1972). Cosa l’ha spinta a studiare questo fenomeno, oggi globale?
«Sì, mi sentivo come se fossi stata anche io una drag queen nei primi anni della mia vita, che stessi impersonando una donna, che non fossi realmente una donna. Non che fossi un uomo eh, ma ero così diversa dalle altre. Quindi, sì, mi identificavo con le drag queen in quel senso. E amavo le performance, lo spettacolo. Quando ho iniziato la mia ricerca le drag queen erano davvero in prima fila – drag queen e persone che ora probabilmente oggi si identificherebbero come donne trans – occupavano le prime file della rabbia e della ribellione contro l’oppressione verso le persone gay. Ero affascinata da ciò. E c’erano ragioni di classe anche dentro la comunità drag. Vedevo come le drag queen fossero criticate dalla maggior parte della comunità gay e allo stesso tempo amate e adorate».
Adesso il mondo è cambiato, pensiamo a RuPaul’s Drag Race. Programmi tv, film, libri, musica.
«Una cosa importante è che RuPaul e l’intero franchise forniscono alle performer drag un modo per sopravvivere, per guadagnare. Ma tutto questo può diventare complesso, come quasi tutto sotto il capitalismo. Perché da un certo punto di vista è anche svilente. Si sta perdendo la connessione tra il drag e il resto della comunità queer. Ma confesso che quando studiavo il drag nessuna poteva pensare di andare in televisione o recitare in un film. Adesso ci sono anche le letture in biblioteca delle drag queen per bambini e ciò è fantastico».
Nei suoi studi ricorre spesso la parola “sopravvivere”. Nel documentario dice che il «Camp è un atto di ribellione contro l’oppressione». Viviamo un tempo difficile, anche per la comunità Lgbt. Qual è la chiave per sopravvivere?
«Organizzarsi politicamente. Tutto quello che abbiamo guadagnato l’abbiamo fatto grazie all’attivismo politico, agli ideali, all’immaginazione di essere un giorno liberi. Quindi organizzarsi politicamente è cruciale e dopo Stonewall è diventato connaturato alle nostre comunità. E poi l’amore: dobbiamo amare noi stesse, fare creazioni come questo film generato dal rispetto, rispetto per noi stesse, per le nostre amiche e le nostre relazioni. Le nostre relazioni sono le fondamenta della struttura sociale».