Scenari

La guerra si sta combattendo anche sui social

di Alessandro Longo   17 novembre 2023

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Fake news, disinformazione, immagini manipolate con la IA. Sulle piattaforme i conflitti esasperano tendenze già dominanti. Ma dietro le regole necessarie si affaccia il rischio della censura

Un bambino che piange, tra le rovine di un quartiere raso al suolo dalle bombe. Sembra Gaza. Ma è una finzione. I terroristi di Hamas cominciano a utilizzare i nuovi strumenti di intelligenza artificiale per creare immagini ad alto impatto emotivo; come se in quella striscia tormentata di terra non ci fosse già troppa sofferenza reale, verrebbe da dire. Ma, si sa, immagini create ad arte fanno più colpo, sui social media. Un’altra foto “artificiale” raffigura bambini abbracciati alla bandiera palestinese: pura propaganda. Sono finzioni smascherate da uno studio dell’Università di Berkeley.

 

Immagini e video falsi, creati con il computer o provenienti da altre guerre; disinformazione; immagini reali ma orripilanti, diffuse per fare propaganda alla causa di Hamas o terrorizzare gli israeliani – tanto che molti di loro hanno dichiarato di dovere evitare i social network per paura di trovare immagini terribili di propri parenti o amici.

 

Ci sono tutti questi elementi nell’ultimatum che la Commissione europea ha mandato nelle scorse settimane ai social media: X (già Twitter), Meta (Facebook, Instagram), TikTok, YouTube. Li sprona a dimostrare di stare facendo il massimo per ripulire le proprie piattaforme. Era già successo con altre guerre – compresa l’ultima in Ucraina – ma stavolta l’Europa ha, da agosto 2023, un’arma in più: la normativa Digital Services Act consente di infliggere sanzioni miliardarie (fino al 6 per cento del fatturato) alle piattaforme trovate in fallo. Fino alla possibilità di bandirle dall’Europa.

 

Al tempo stesso, molti palestinesi sui social stanno accusando Meta di censurare i loro racconti e le loro opinioni; lo affermano anche i media del mondo arabo (come Al Jazeera). Meta ha risposto che alcuni account di legittime organizzazioni palestinesi sono stati bloccati solo per motivi di sicurezza (si temeva che i loro account fossero controllati da terroristi) e di avere bollato per errore come terroristi profili di persone normali. È anche vero però che l’anno scorso un rapporto interno, indipendente e commissionato dalla stessa Meta, ha rivelato che il social ha violato i diritti umani dei palestinesi perché ne aveva censurato le voci durante gli attacchi di Israele a Gaza.

 

Molti esperti, anche in Italia, considerano questi eventi come cartina di tornasole di un problema più grande. Certo, la guerra scoppiata in Medio Oriente ha denudato – ancora una volta, e con più forza – il ruolo controverso dei social. Ma non solo: a mostrarsi sono ora le contraddizioni dell’Occidente; diviso tra la tutela del profitto e della libera espressione da una parte e la difesa dei propri valori e confini dall’altra. Come dice Guido Scorza, dell’Autorità Garante Privacy: «Bisogna fare una distinzione netta tra contenuti violenti, orripilanti e la cosiddetta disinformazione. Quelli non dovrebbero esserci su nessun media e l’Europa può spingere i social a fare di più; sulla disinformazione invece sono scettico: il rischio è la censura».

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È d’accordo Juan Carlo De Martin, ordinario al Politecnico di Torino dove è uno dei fondatori del Centro Nexa su Internet e Società: «Preoccupa che i governi e l’Europa sempre più cerchino di manipolare l’opinione pubblica intervenendo sulle piattaforme social».

 

«La disinformazione è un problema reale, ma lo è altrettanto che la politica la usi come un randello per mettere a tacere il libero dibattito, le opinioni divergenti; soprattutto sui social, temuti perché qui anche voci alternative possono costruirsi un’audience», aggiunge. Secondo il professore vent’anni fa l’Occidente era più aperto; ma ora si sente fragile, per l’avanzata culturale ed economica dell’altro blocco, e così tollera meno il pensiero alternativo. Come avvenuto durante il maccartismo (la crociata anti-comunista negli Usa nel dopoguerra).

 

Ma, ancora, al tempo stesso: la libertà di espressione sui social è a volte solo una bandiera dietro cui si nascondono interessi di profitto. Legali sì, ma potenzialmente pericolosi per la società. «Le piattaforme non dovrebbero viralizzare così tanto certi contenuti», riconosce De Martin. I social sono progettati in modo da catturare di più la nostra attenzione, per fare più soldi con la pubblicità. A questo scopo preferiscono farci vedere soprattutto ciò che ci emoziona e conferma le nostre idee. Meta per questo motivo qualche anno fa ha cambiato l’algoritmo per rendere meno visibili le fonti giornalistiche professionali. Il social cinese TikTok è stato sempre pensato in questo modo; X, sotto la guida di Elon Musk, è diventato l’alfiere di questa “libertà di espressione” priva di scrupoli.

 

Il risultato è aumentare la polarizzazione tra opinioni e all’interno della società occidentale, come evidenziano le analisi (tra gli altri) di Davide Bennato (Sociologia dei media digitali all’Università di Catania) e Walter Quattrociocchi (Università la Sapienza di Roma). Gli esperti concordano: una mano pesante sui social, armata dal Digital Services Act, rischia di essere controproducente. «Gli utenti che si sentono censurati migrerebbero su piattaforme fatte apposta per loro; aumenterebbe così solo la polarizzazione», dice Quattrociocchi. Un esempio è già Trust, il nuovo social creato da Donald Trump. La soluzione di fondo è una sola: «Costruire una cittadinanza informata, dotata di senso critico; unico antidoto sia alla disinformazione sia al pensiero unico», dice De Martin. È la soluzione più complessa di tutte – sulla cultura i governi disinvestono da anni – ma è la sola che possa «salvare la democrazia dal diventare un guscio vuoto», dice De Martin.