L'appuntamento con Renzo Piano è alle otto del mattino nella hall del grattacielo del 'New York Times'. A quest'ora la città si è già messa in moto da un pezzo, e qui siamo in uno degli snodi più caotici, sull'ottava Avenue, tra la 40esima e la 41esima strada. Al di là delle vetrate si vede la sagoma inquietante del Port Authority Bus Terminal, un mostro di metallo arrugginito dove ogni giorno 400 mila persone sbarcano dall'autobus e scendono nella metropolitana per dilagare nella città. Piano, che veste un maglioncino azzurro perfettamente intonato ai suoi occhi, comincia a descrivere il quartiere tirando fuori l'anima da sociologo: "Questa è una zona derelitta, un'area di riabilitazione urbana, che è stata scelta anche perché era un luogo dove è possibile innescare un processo positivo attraverso un gesto urbano. Gli edifici fanno miracoli, possono fertilizzare un deserto". Accanto alla mole sgraziata del Bus Terminal, il nuovo grattacielo di Piano sembra ancora più leggero. È fasciato da una struttura di listelli di ceramica bianca che servono per schermare l'edificio dalla luce e dal calore dei raggi solari. Questa pelle di ceramica, dice l'architetto, cambia colore ogni giorno, prende il rosso del tramonto quando il cielo è terso, o il grigio delle nuvole plumbee che talvolta incupiscono la città.
Visto da lontano, con i suoi 52 piani, il grattacielo del 'Times' ha cambiato lo skyline della città, in contrapposizione con il profilo prepotente dell'Empire State Building, che spicca con la sua antenna affilata sette strade più giù, sulla 34esima. Il grattacielo di Piano ha un'aria più morbida, con quelle grate di ceramica che salgono 27 metri oltre l'ultimo piano e danno la sensazione che l'edificio sfumi verso il cielo. Piano sembra andare in cerca di questa morbidezza, teorizza un'architettura permeabile, in sintonia con la città: "Penso che l'architettura abbia a che fare con le emozioni profonde delle persone", dice.
Piano ebbe l'incarico di progettare la nuova sede del 'New York Times'nel 2000. Un anno dopo, con la città sconvolta dalla tragedia dell'11 settembre, i vertici del 'Times' avviarono un serrato dibattito per decidere se il progetto doveva essere modificato: "C'era la possibilità di chiudersi a riccio, di adottare la soluzione bunker, di scegliere l'invisibilità", racconta: "Prevalse invece l'ipotesi opposta: fu scelta la 'security' della trasparenza e sconfitta quella dell'opacità". L'architetto ama trasformare i suoi progetti in metafore, e gli piace parlare del nuovo 'Times' come di "un edificio che dialoga con il traffico delle strade che lo circondano". La redazione del giornale lavora in un'ala laterale rispetto alla torre, quattro piani battezzati The Podium, con a piano terra un auditorium e all'interno un cortile dov'è appena stato piantato un boschetto di betulle alte venti metri su un terreno ondulato segnato da diversi tipi di muschio: "Abbiamo scelto le betulle per la loro fragilità, la loro bellezza grafica, la loro leggerezza", spiega l'architetto. I piani sono collegati da scale interne che disegnano gli spazi e suggeriscono ai redattori di usare le gambe, invece degli ascensori, una scelta inusuale nei grattacieli americani, dove le scale sono quasi sempre squallidi percorsi di sicurezza.
Per rafforzare la metafora del giornale come finestra sul mondo, nell'ingresso dell'edificio è stata posta un'opera d'arte progettata da Ben Rubin e Mark Hansen. È una griglia di 560 schermi, che occupano due pareti, sui quali appaiono frammenti di articoli e di titoli che in quel momento vengono composti sui computer dei giornalisti. "Si tratta di una scultura che è l'espressione palpitante di quello che accade nella newsroom", spiega Piano. Negli Usa lo citano spesso come 'l'architetto umanista', e lui fa di tutto per confermare questa immagine: "Una delle cose più terribili, in architettura, è l'ansia da prestazione. Oggi va di moda lo strafare, e spesso i grattacieli sono oggetti chiusi che assumono un carattere ermetico, aggressivo, fallico". Pronuncia questi tre aggettivi, con quella sua aria di affabulatore, come se invece che di un grattacielo stesse parlando di un essere vivente. Piano teorizza un'"architettura della trasparenza" che rappresenta una svolta nell'ambiente urbano delle città americane, a New York come a Chicago, a San Francisco, a Los Angeles, a Boston. E forse l'intervento più delicato per il futuro della città, Piano lo sta realizzando a West Harlem, proprio dove la 125esima strada incontra Broadway, a pochi passi dal fiume Hudson. Qui Piano ha progettato il master plan del nuovo campus della Columbia University, un'impresa da cinque miliardi di dollari la cui conclusione è prevista per il 2035. L'architetto sta già disegnando i primi sei edifici, mentre l'intero progetto sta passando attraverso le forche caudine della City Planning Commission, tra riunioni e assemblee pubbliche. Piano definisce 'ibrido' il modello scelto per il campus della Columbia, in cui le attività accademiche si mischiano con quelle legate al quartiere: "Ottengo questo risultato sollevando gli edifici da terra e creando a livello strada uno strato di attività pubbliche che aprono il campus al quartiere". L'obiettivo è scongiurare la sua trasformazione in un ghetto dorato per studenti e ricercatori. Sono previste sale di prova per musicisti, aule di incontro, consultori. In un edificio battezzato 'Mind, Brain and Behaviour' (mente, cervello e comportamento) nascerà un 'planetarium sul cervello', con la consulenza di tre Nobel per la Medicina, dove le immagini proiettate su una cupola trasporteranno gli spettatori in un mondo virtuale in cui si esplorano i rapporti tra cellule neuronali e comportamento umano. Solo i piani alti, sono riservati alle aule e ai laboratori. "Si tratta di un modello di stratificazione urbana tipico della cultura europea" osserva Piano: "In basso: le attività pubbliche e commerciali, e in alto quelle residenziali. Tutti i miei progetti americani sono percorsi da un filo rosso che rappresenta il desiderio di comunicare con la strada".
Anche il progetto che sta ideando per il Whitney Museum avrà questa cifra, assicura. Il Whitney ha deciso di lasciare la sua vecchia sede su Madison Avenue, nell'Upper East Side, per trasferirsi downtown nel Meat Market. Il nuovo museo sorgerà dove finisce la High Line, una vecchia ferrovia caduta in disuso e che sarà trasformata in un parco urbano sopraelevato: "Lì, tra i vecchi capannoni di quello che una volta era il mercato della carne, mi ritrovo in un luogo che ha una grande somiglianza con Les Halles di Parigi, dove negli anni Settanta progettai il Beaubourg assieme a Richard Rogers", osserva Piano che proprio lì ha scelto di aprire il suo nuovo ufficio newyorchese. A questo punto gli chiediamo di sfogliare l'album dei progetti in corso in altre città Usa. Piano comincia con il California Academy of Science di San Francisco, che fu semidistrutto dal terremoto del 1992. La nuova struttura, quasi ultimata, è all'interno del Golden Gate Park. Si tratta di un'ampia e bassa costruzione che ha un tetto ondulato di 15 mila metri quadrati che sarà occupato da un giardino pensile di graminacee. Il progetto sembra un manifesto ambientalista: "I materiali degli edifici preesistenti sono stati triturati e riutilizzati al 100 per cento. L'acciaio usato è per il 95 per cento riciclato, come se ogni pilone contenesse almeno sei o sette vecchie cadillac. Non esiste impianto di aria condizionata e i materiali termici isolanti sono stati ottenuti da cascami di jeans. Siamo molto vicino al livello di emissioni zero, e infatti l'edificio ha ottenuto il massimo grado nella scala di sostenibilità architettonica". A Chicago Piano ha progettato l'ampliamento dell'Art Institute, che sarà collegato da un ponte di 180 metri, leggero e sottile come una lama, al Millennium Park. Entrambi saranno inaugurati nel 2009. A Los Angeles sta per aprire il Lacma, Los Angeles County Museum of Art, dove Piano ha progettato padiglioni di vetro per dare unità architettonica a una serie di edifici preesistenti. A Boston l'architetto sta ristrutturando i tre musei della Harvard University: il Fogg Art, il Busch-Reisinger e l'Arthur Sackler.
Dal 'New York Times' alla Columbia, dal Whitney ai musei in California e in Massachusetts, tutti i progetti americani di Piano sono stati promossi da grandi istituzioni culturali. A guidarle sono élites che guardano alla tradizione europea per ridare ordine a città cresciute troppo in fretta e senza troppa attenzione alla qualità della vita. E la scelta di Renzo Piano è il segno che c'è un'America desiderosa di farsi contaminare dallo stile di vita delle città europee. Spiega l'architetto genovese: "Diceva Luciano Berio che la musica non ha fretta, ha il tempo delle montagne, dei mari. Anche l'architettura non ha fretta. Gli edifici devono essere vissuti, devono far parte di un ambiente per molto tempo. C'è bisogno di una dimensione più durevole, meno forsennata, più europea". E intanto indica le delicate sfumature dell'intonaco sulle pareti del 'New York Times': 'Stucco veneziano! Bello vero?".
Cultura
21 novembre, 2007Mentre viene inaugurato l'edificio del 'New York Times', Renzo Piano racconta il suo rapporto con la città. E anticipa nuovi e sorprendenti progetti negli Stati Uniti
L'America va molto Piano
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