Il giornalista de 'L'espresso' ha girato l'Europa. Con una finta identità di Bucarest per la quale era stato espulso dall'Italia. Lavavetri alla Torre Eiffel, a Barcellona e a Monaco. Senzatetto in Austria e persino a Montecarlo. Ma le polizie non lo fermano. Ecco il suo reportage

Giù lo zainetto. Fuori la spazzola e la bottiglia di plastica piena d'acqua e sapone. Il traffico al semaforo tra avenue de New York e Pont d'Iéna arriva a ondate. Puzza di benzina il cuore della Parigi da cartolina. Davanti, il Palais de Chaillot. Dietro, la Senna. Sopra, la vertigine mozzafiato della Tour Eiffel. Di lavavetri a questo incrocio forse non ne hanno mai visti. È il posto migliore per provare. In tasca nessun documento. Solo un decreto di espulsione della Prefettura di Lodi, scritto in due lingue, italiano e inglese. È intestato a Roman Ladu, nato a Bucarest il 29 dicembre 1970. Un finto romeno: il nome Roman scelto tra i cognomi dell'elenco telefonico di Vicenza, Ladu tra quelli di Nuoro. Ma l'assonanza sardo-veneta poco importa. In questi tempi di xenofobia militante contro la Romania basta che un'identità finisca per "u" e in Italia si è guardati con sospetto. Figuriamoci qui, nella Francia di Sarkozy. Prima o poi arriverà la polizia. Perché questa è la Francia del pugno di ferro, delle espulsioni, del rigore citato come esempio dalla politica nostrana. Il Paese da imitare, con Germania, Austria e Spagna. Poi si è aggiunto il pacchetto sicurezza del governo con la decisione di dare più potere ai sindaci. E si è visto in che modo i Comuni del lombardo-veneto abbiano già approfittato dell'occasione. Bisogna indossare i panni dello stereotipo per scoprire cosa succede sui marciapiedi fuori dall'Italia. E provare a diventare ciò che il nostro Paese della mafia, della camorra, della 'ndrangheta e del record di corruzione ha sostituito nell'immaginario collettivo del pericolo nazionale: un cittadino europeo, senza documenti, senza lavoro, senza casa, senza fissa dimora, nomade e nato in Romania.

Dieci giorni in giro per l'Europa, su e giù tra piazze, treni e stazioni. Da Milano a Parigi. E poi Stoccarda, Ulm, Monaco di Baviera, Kufstein, Innsbruck, Verona, Milano, Marsiglia, Montpellier, Barcellona, ancora Montpellier, Marsiglia, Nizza, Montecarlo. E ritorno in Italia. Dal 21 novembre al primo dicembre. Cinque controlli di polizia: in Germania, Austria, Francia e Spagna. Sempre con la stessa intenzione: presentarsi come Roman Ladu, mostrare il decreto di espulsione ed essere rimpatriato a Bucarest. Oppure fermato per immigrazione clandestina: perché nell'archivio centrale delle polizie dell'area Schengen il finto nome romeno è associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Così dovrebbe risultare dopo i reportage sotto copertura nel centro di detenzione di via Corelli a Milano nel 2000 e in quello di Lampedusa nel 2005. Invece il costoso cervellone europeo non scopre nulla. E alla fine la risposta è sempre la stessa: «Grazie, può andare». Quattromila chilometri di libertà che affossano ogni possibile efficacia delle espulsioni di cittadini europei, come pretende il pacchetto sicurezza italiano. Perché la circolazione delle persone in Europa è un principio sancito dai Trattati.

Così l'Italia della paura rimane un caso isolato. E ogni Paese diventa un mondo a sé. In Germania, invasa dalla 'ndrangheta e scioccata dalla strage di Duisburg, sono gli italiani a essere perquisiti. In Austria basta dire di voler arrivare a Verona per tranquillizzare gli agenti e farla franca. Mentre a Barcellona è la polizia a insegnare come chiedere l'elemosina senza infastidire i passanti. Un salto indietro alla partenza. Stazione Centrale, Milano. Fuori è pieno di auto con i lampeggianti blu. Una trentina di poliziotti controlla chiunque abbia un volto leggermente diverso dai lineamenti italopadani. Qualcuno viene portato via. Due italiani all'angolo guardano la scena e offrono sigarette di contrabbando ai passanti. Sul Tgv per Parigi la polizia riappare al confine. Gli agenti di Bardonecchia sono saliti davanti. La Paf, la Police aux frontières, arriva alle spalle. Si incontrano alla carrozza 5. Ma controllano soltanto i passeggeri dalla pelle scura. Vengono fatti scendere un pachistano perché ha un visto solo per l'Italia. E quattro ragazzi di colore. Un ispettore contratta con un collega francese la restituzione di un senegalese. «L'abbiamo fermato stamattina». Il francese non è convinto. «Guarda», dice l'ispettore, «sul passaporto ha il timbro d'ingresso dell'aeroporto di Parigi. È vostro ». Il graduato con la tuta blu della Paf osserva il timbro. «Sì, va bene. È nostro». Uno almeno se lo devono prendere. La partita finisce 5 a 1 per la Francia. Roman Ladu passa indenne. Nonostante la barba sfatta e gli abiti dimessi, la polizia di solito non ferma i bianchi.

Di lavavetri a Parigi ne hanno visti pochi.
Soltanto qualche mese fa a Porte de la Chapelle, periferia Nord, al grande svincolo di fronte allo stadio di Francia. Erano nomadi del campo di Saint Denis. Adesso hanno lasciato perdere. Si avvicinano due donne, nelle loro gonne colorate. Una ha i piedi protetti soltanto da un paio di calze di cotone lacero. Chiedono l'elemosina ai turisti sotto gli archi della Tour Eiffel e lungo i viali nel Campo di Marte. Dicono che vengono dalla Romania. «Due anni fa, quando hanno tolto i visti di ingresso», spiega la ragazza senza scarpe, «siamo partite con le famiglie». I poliziotti pattugliano in auto. Si guardano intorno. Riprendono il giro. Ancora pochi passi e oltre il Pont d'Iéna sulla Senna, ecco l'incrocio ideale dove lavare i parabrezza. Le tipiche scene degli automobilisti. Un colpo di gas per andare più avanti. Un colpo di freno per rimanere più indietro. Un no gentile con l'indice. Uno solo, un uomo su una monovolume, si slaccia la cintura di sicurezza e minaccia di scendere. Molti si lasciano pulire i cristalli. Nessuno però sgancia un solo centesimo. Ogni tanto ripassa un'auto della polizia. Qualche agente in moto. Forse vedono. Forse no. Comunque tirano dritto. Meglio cambiare. Non appena fa buio il traffico su Pont de l'Alma si allunga in una coda di fari e fumi di scarico. È l'incrocio che scende agli Champs Élysées. I poliziotti in auto arrivano, si fermano al semaforo, ripartono. Non fanno caso all'intruso che si avvicina ai finestrini. Stesse scene di prima. Gli automobilisti rifiutano gentilmente. I parigini non hanno bisogno di ordinanze del loro sindaco. Considerano la questione uno sfruttamento denigrante dell'immigrazione. Così non regalano nulla. Per questo anche quei pionieri del parabrezza davanti allo stadio di Francia sono subito scomparsi. Due ragazzi su un'auto bianca invece si arrabbiano. È il momento di inventarsi una scusa. «Sorridete, è per la televisione. Stiamo girando una pubblicità». Loro adesso ridono e salutano a caso cercando il cameraman.

Così va il mondo. Ma non c'è niente da ridere. La campagna contro i romeni in Italia, innescata dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, ha avuto ricadute fin qui. Un caso tra i tanti. Nicu B., 22 anni, era partito due anni fa da Craiova, a ovest di Bucarest, per lavorare a Pavia. Muratore in nero: «Perché», racconta, «il padrone diceva che mettendomi in regola avrebbe pagato troppe tasse». Il capomastro lombardo gli versava sette euro l'ora e si rubava i contributi di malattia e pensione. Nicu viveva con la moglie e la loro bimba, 9 mesi. Pochi giorni dopo la presentazione del pacchetto sicurezza, la Guardia di finanza è entrata nel cantiere. «Il mio padrone si è preso una multa», spiega il ragazzo, «ma io ho perso il lavoro». È l'effetto del pugno di ferro, quando si abbatte a caso sulla gente. Così tre settimane fa Nicu ha lasciato la moglie e la figlia da una sorella a Pavia. E ha cominciato il suo secondo viaggio da emigrante. «Ho preso il treno a Milano, ho il passaporto romeno. I francesi mi hanno lasciato passare. Siamo nell'Unione europea, no?». Ora abita con i genitori in pieno centro a Parigi, in boulevard Haussmann. Dietro al teatro dell'Opera, davanti ai grandi magazzini Lafayette. Una bella zona. Una grande finestra di cristallo come parete. Solo che Nicu, suo papà Paulin, 54 anni, sua mamma, 48 anni, e suo fratello quella finestra la guardano da fuori. La soglia dei negozi di abbigliamento C&A è la loro camera da letto. Il materasso è uno strato di gommapiuma steso su un giaciglio di cartoni. Se fossimo davanti alla Rinascente di Milano, li avrebbero già cacciati. «Siamo più di trecento », ammette Nicu: «Qui intorno a Lafayette e ai grandi magazzini Printemps, veniamo tutti da Craiova». E la polizia non vi ha mai allontanati? «No, i miei sono qui da due mesi, non è mai successo. Non è come in Italia. Se non fai casino, la polizia in Francia non ti ferma. È una società multietnica, come fanno a capire chi è francese e chi è straniero?». Lavoro? «Ho già lavorato a Parigi, in nero per un romeno. Sto aspettando che mi chiami.

Qui è più difficile che in Italia.
Perché i francesi quando ti assumono fanno tutte le cose in regola, non è come da noi». Da noi dove? «Da noi in Italia». La cena è una scodella di pane inzuppato, seduti sull'asfalto. La notte è un respiro tormentato sotto strati di coperte sporche. Le luci non si spengono mai. Soprattutto adesso che le facciate di Lafayette e Printemps brillano di stelle natalizie ed effetti luminosi. E la musica diffusa dalle vetrine continua a suonare. Anche la città riaccende presto il suo frastuono. In boulevard Haussmann dalle 3 alle 5 arrivano i furgoni che smistano i giornali. Poi scaricano i rifornimenti per i grandi magazzini. Arrancano i mezzi della nettezza urbana. Gli addetti spingono carrelli carichi di rifiuti, attenti a non camminare sulle griglie dell'aria calda. Su quelle griglie in mezzo al marciapiede i trecento abitanti dei portici di Lafayette hanno messo ad asciugare il loro bucato. Magliette e calzini lavati ieri sera alla fontana di un parco. La nuova giornata comincia poco dopo le 6. Nicu e i suoi la passano accovacciati davanti alle vetrine. Al padre Paulin, ex saldatore, la Romania paga una pensione di invalidità. Ma cento euro al mese non bastano. E da quando le frontiere dell'Unione si sono estese, molti anziani romeni hanno scoperto che possono arrotondare il sussidio chiedendo elemosina all'Europa ricca: «Se possiamo, andiamo a casa per Natale. In primavera torniamo». Una transumanza di mani tese. Con una coperta colorata sulla testa, un cartello che ringrazia in francese e un bicchiere da riempire di monete. Visti così, anche gli uomini sembrano madonne. «La gente è più tenera con le donne», rivela Nicu: «Io devo accontentarmi. Ieri, in tutta la giornata, ho raccolto 12 euro. Non so come farò a tornare a Pavia».

Si riparte dalla Gare de l'Est. Roman Ladu va in Germania. A Stoccarda l'Ice per Monaco, il treno ad alta velocità, si muove in ritardo. «Fahrkarte, bitte», chiede la controllora. Bisogna farsi venire un'idea. Basta non consegnare il biglietto giusto. «Passport », ordina lei a un certo punto. Guarda sorpresa il decreto di espulsione. «Da dove viene?». «Da Parigi». Sembra stia leggendo le frasi in inglese e in italiano. «Ah, questo è scritto in francese», borbotta confusa, «devo chiamare la polizia». Il poliziotto è a bordo. Un uomo con lo scudo della Polizei cucito sul braccio del maglione. Legge il decreto di espulsione. «Dunque lei è romeno e non ha il passaporto», commenta in francese. Confabula con la controllora. Le dice sottovoce di farmi scendere a Ulm, la prima fermata dopo 85 chilometri. E se ne va. «Ma io non ho soldi, non conosco nessuno a Ulm. Non può lasciarmi arrivare a Monaco? ». «Non è possibile», risponde la donna che per non perdere di vista Roman Ladu si è seduta nella fila accanto: «Non ha il biglietto per questo treno. E poi l'agente ha già telefonato alla polizia, a Ulm la aspettano. Ormai è fatta». Il treno si ferma. La controllora fa strada verso l'uscita. La scena è quasi calcistica. Lei estrae dalla tasca della divisa un cartellino rosso. Scende. Si piazza davanti alla scaletta. Risale, agita il cartellino e lascia chiudere la porta. Il treno riparte. Forse arriverà la polizia come minacciato. E finalmente scatterà l'espulsione. Non arriva nessuno. Fa freddo e piove sulla città del Danubio e di Albert Einstein. Il treno successivo entra a Monaco prima che faccia buio. C'è tempo per lavare qualche parabrezza tra la Arnulfstrasse e il Paul Heyse Hunterführung, il sottopasso della stazione. In 30 minuti, quattro euro e 60. Due euro da una coppia di giovani fidanzati tedeschi. Il resto da una famiglia di rifugiati iraniani, un arabo e un immigrato italiano. Quattro volte più di quanto pagano all'ora molti agricoltori in Puglia per la raccolta dei pomodori. La maggior parte degli automobilisti però rifiuta la pulizia del vetro. Adesso, sotto l'acquazzone, hanno i tergicristalli in funzione. Fine dell'esperimento. Di notte ci ritroviamo in 39 a tentar di dormire in stazione, nella scatola di vetro della sala d'attesa. Alle 4,20 entrano due poliziotti in divisa e giacca a vento. «Polizeikontrolle », avvertono a voce alta. Leggono la parte in inglese del decreto di espulsione. «Roman Ladu è lei?», domandano. Rileggono il nome sul decreto. «Dove deve andare?». «In Austria». Chiamano la centrale via radio: «99, una verifica: Roman ». La risposta arriva in un minuto. «Niente? Bene», dice l'agente. E restituisce il decreto. Come «niente»? Avrebbero dovuto scoprire che il nome Roman Ladu è associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Forse i due agenti non hanno capito. «Scusate, devo aspettare? Vi ho mostrato un decreto di espulsione». Un controllo bis che nessuno si andrebbe a cercare. «Sì, ho letto che lei ha un'espulsione dall'Italia», dice il poliziotto, «ma adesso la Romania fa parte dell'Unione: lei può rimanere in Germania fino a tre mesi». Un ragazzo consegna la sua carta d'identità. È italiano. «Fuori le mani dalle tasche», lo rimprovera l'agente. «99», dice il collega alla radio e detta il nome per la verifica. Poi perquisiscono il suo zaino.

È l'ispezione più meticolosa.
La pubblicità di un'agenzia di viaggi invita a trascorrere quattro giorni a 280 euro nella città del Colosseo. «Rom», è scritto sul grande poster. Ironia delle lingue. La mattina dopo sull'Eurocity Monaco-Verona un uomo e una ragazza svegliano Roman Ladu. Sono agenti di frontiera austriaci. Chiedono la carta d'identità. Scrutano il decreto di espulsione. Il ruolo dell'Austria è fondamentale nel pacchetto sicurezza per fermare il ritorno dei romeni cacciati dall'Italia. L'uomo verifica il nome al telefono con la centrale. Mentre aspetta la risposta, la ragazza svuota lo zainetto. Il suo sguardo è attratto dalla spazzola lavavetri. Rimette tutto dentro. Senza fare domande. La risposta dalla centrale è negativa. Il poliziotto restituisce il decreto. «Va in Romania?», chiede. «Italia, Verona». «Mi fa vedere il biglietto? ». I due si guardano. «Grazie, buon viaggio», dice lui e scendono a Kufstein. Nemmeno in Austria Roman Ladu e il suo alter ego iracheno sono registrati come persone espulse. Al Brennero, niente controlli. Così a Ventimiglia. Così fino a Barcellona, come è normale tra Paesi nell'area del trattato di Schengen. Non può passare inosservata una mattinata a pulire parabrezza sotto il Mirador de Colon, la statua di Cristoforo Colombo alla base della Rambla. A Barcellona un'ordinanza punisce i lavavetri. Ma una legge prevede corsi di catalano anche per gli anziani nei campi rom, l'obbligo della scuola per i bambini, l'accesso al lavoro e l'assegnazione di appartamenti. Roman Ladu raccoglie due euro e 50, una sigaretta e un'offerta che potrebbe costargli un sacco di guai. «Fumas porros», gli chiede una donna dall'auto di servizio della nettezza urbana. «Porros?». Lei apre il cruscotto e tira fuori una stecca di hashish. La prima macchina con due agenti si ferma dopo mezz'ora. «Ehi, ehi, chico», grida la ragazza in divisa al finestrino, «no limpiar, pulire è proibito. Da dove vieni? ». «Romania». Non vuole nemmeno vedere i documenti. «Così sì», dice alla fine e mima il gesto di chiedere l'elemosina con la mano. «Limpiar no», ripete e indica il parabrezza: «Claro?». Non hanno voglia di scendere. Nemmeno di rovinarsi la giornata con una procedura burocratica noiosa. E soprattutto costosa.

Il ritorno è un viaggio in treno senza intoppi fino a Milano. L'ultima sosta a Montecarlo. Una notte di bivacco nel principato dei casinò, dei miliardari e delle bodyguard. Eppure si può dormire indisturbati sul marciapiede della stazione. Sotto volte di marmo, luci e telecamere. Appena sopra la chiesa di Saint Devote e la prima curva del gran premio. Giusto per vedere l'effetto che fa.