Sono in arrivo tre virus. Di questi, uno è nuovo e pericoloso. Perché sconosciuto al nostro organismo. Ma è possibile difendersi. Come spiega a L'espresso un super esperto Usa. Colloquio con Antony Fauci
I virus che mi fanno paura sono quelli che non conosco: parola di Anthony Fauci, direttore del National institute of allergy and infectious disease (Niaid) di Bethesda, massimo esperto mondiale su nuovi e vecchi virus, e primo consigliere del governo americano per le strategie di contenimento dell'avanzata delle malattie infettive. La sua fiducia nei grandi laboratori dove si studiano i virus, per sconfiggerli, è grande, ma non si nasconde le oggettive difficoltà della microbiologia, che oggi sono davvero tante. È arduo trovare farmaci antivirali e mancano i nuovi antibiotici, quelli che potrebbero dare una risposta all'emergenza di ceppi di micobatteri della tubercolosi resistenti che si stanno diffondendo in Europa e negli Usa, ad esempio, o renderci meno fragili di fronte al super attacco dello stafilococco resistente alla meticillina.
E, come se non bastassero i nuovi virus strani e sconosciuti che arrivano, portati dalla globalizzazione, da tutte le parti del mondo; come se non bastassero polmoniti e tubercolosi resistenti ai farmaci, nei giorni scorsi è arrivato anche l'allarme sull'influenza stagionale attesa per il prossimo inverno. Le previsioni dell'Organizzazione mondiale della sanità parlano di tre nuovi ceppi virali in arrivo, quindi di una nuova epidemia influenzale che potrebbe mettere k.o. moltissime persone. E raccomanda la vaccinazione. Fauci fa la guerra a virus e batteri da trent'anni, è stato tra i guerrieri che hanno battuto l'Aids e non si spaventa davanti a un'influenza. Ecco come risponde all'allarme dell'Oms.
In questi giorni, come ogni anno, la discussione è sull'opportunità di vaccinarsi contro l'influenza. C'è chi dice che a volte il vaccino non riesce a proteggere a dovere. Che cosa ne pensa? "Il vaccino è sicuramente utile, anche perché la vaccinazione prevista per giocare d'anticipo sull'influenza attesa per il prossimo inverno punta a proteggere da tre ceppi influenzali nuovi. Ed è la prima volta che succede negli ultimi anni. Tuttavia non si può dire con certezza che gli antigeni virali contenuti nel vaccino (cioè le parti del virus che debbono stimolare la risposta specifica del sistema immunitario, ndr) siano esattamente 'incrociabili' con quelli dei virus che effettivamente arriveranno nel prossimo inverno, perché i ceppi prescelti per il vaccino vengono identificati mesi prima dell'effettiva comparsa della malattia. Sappiamo comunque che mediamente circa tre-quattro volte su 20 il vaccino non è completamente azzeccato. L'ultimo esempio lo abbiamo avuto lo scorso anno, quando due ceppi su tre contenuti nel vaccino non erano poi effettivamente correlati con i virus circolanti nella popolazione. Ovviamente spero e auspico che per la vaccinazione dell'inverno 2008-2009 ci sarà una completa concordanza tra i virus che si diffonderanno nella popolazione e gli antigeni contenuti nel vaccino".
Si parla molto meno di pandemia influenzale, anche se ci sono previsioni autorevoli che la prevedono comunque entro il 2017. Qual è il suo punto di vista? Possiamo parlare di cessato allarme? "Teniamo sempre sotto stretta osservazione il virus H5N1 (della famiglia dell'aviaria e il principale indiziato per lo sviluppo di una futura pandemia, ndr) e continuiamo a prepararci nei confronti di questo ceppo. Tuttavia, la situazione non appare significativamente diversa rispetto agli scorsi anni, anzi forse è addirittura migliorata nel 2008 rispetto al 2003, anno di massimo allarme. Sono infatti calati sia il numero di nuovi casi sia la mortalità riscontrati nel Sud-est asiatico. Sul fronte del virus, addirittura, possiamo dire che le previsioni degli scorsi anni sull'evoluzione dell'H5N1 erano addirittura peggiori rispetto a quanto poi è realmente avvenuto".
Non si è mai verificata la temuta mutazione che lo avrebbe reso letale? "Il virus non si è ancora trasformato e non è in grado di trasmettersi da uomo a uomo: questo è il parametro fondamentale per poter parlare di pandemia. Non ci sono quindi segnali di particolare pericolo sotto questo aspetto. E la ricerca sta lavorando bene su questo terreno".
Per contrastare l'eventuale pandemia? "Molti studi stanno facendo grandi passi avanti sul vaccino prepandemico, che viene disegnato sulla base dell'attuale costituzione del virus. Certo, per ottenere il vaccino mirato sul ceppo virale che potrebbe colpire da qualche parte nel mondo e rendersi responsabile di una possibile pandemia, sarà necessario attendere almeno quattro mesi dall'identificazione esatta del virus stesso".
E allora, che cosa ce ne facciamo del vaccino studiato oggi? "Nelle formulazioni cosiddette 'prepandemiche' è presente un particolare composto che amplifica la risposta immunitaria indotta dalla vaccinazione, perché permette di ridurre la quantità di quelle parti del virus che debbono stimolare la risposta del sistema immunitario presente in ogni dose, e quindi di aumentare la disponibilità di dosi di vaccino per la popolazione. Inoltre recenti studi clinici dimostrano che questo vaccino può determinare reattività crociata, e quindi risultare attivo anche nei confronti di ceppi del virus H5N1 che hanno subito una leggera trasformazione rispetto a quello per cui è stato predisposto il vaccino. I segnali nella preparazione alla pandemia, quindi, sono incoraggianti".
Quali altre epidemie ci aspettano? "Non sono ottimista sulla ricerca che riguarda altri virus, di cui sappiamo ancora poco anche perché si sviluppano in aree molto circoscritte dell'Africa. Mi riferisco alle microepidemie causate dal virus Ebola e da quello che determina la febbre di Lassa. Si tratta di infezioni che interessano piccoli gruppi di persone, ed è molto improbabile che queste malattie possano trasferirsi anche in altre zone del pianeta, magari attraverso i voli aerei, perché portano rapidamente a quadri patologici molto gravi. Quindi, pur se il pericolo di contagio è estremamente basso al di fuori della cerchia di quanti vivono a stretto contatto con il paziente, bisogna seguire con grande attenzione quanto avviene".
Recentemente il 'British Medical Journal' ha segnalato la carenza di nuovi antibiotici e la diffusione di batteri sempre più resistenti alle terapie. È una situazione preoccupante? "Negli Stati Uniti stiamo osservando un pericoloso trend di crescita dei casi di batteri stafilococchi resistenti alla meticillina, Mrsa, sigla che definisce batteri che non rispondono più alle comuni terapie. Ogni anno un elevato numero di persone contrae infezioni causate da questi germi, che appaiono insensibili ai normali trattamenti antibiotici, e vediamo diverse microepidemie che si concentrano soprattutto nelle case di cura e colpiscono gli anziani come i giovani, oltre che il personale di assistenza. Sicuramente, almeno per le dimensioni del fenomeno, è ancor più allarmante l'avanzata della tubercolosi, visto che ogni anno ci sono 8,8 milioni di nuovi casi e 1,7 milioni di decessi. Anche in questo caso fa paura la multiresistenza del batterio alle terapie. Purtroppo non abbiamo a disposizione nuovi antibiotici, e questo preoccupa molto per il futuro".
Ma è così difficile trovare nuovi antibatterici efficaci oppure la ricerca non investe abbastanza in questo settore? "Le aziende farmaceutiche oggi non affrontano questa sfida scientifica, che vale comunque centinaia di milioni di dollari, per il possibile rapporto costo-beneficio di queste ricerche. Un nuovo antibiotico può essere utilizzato poco frequentemente e per periodi di sette o dieci giorni, e comunque mai più di due settimane. L'industria del farmaco invece punta soprattutto a identificare nuovi farmaci che possano essere assunti quotidianamente e per un periodo indeterminato, magari per tutta la vita. Per questo ci si concentra sempre di più su medicinali per l'ipertensione o le ipercolesterolemie, e non si punta abbastanza sulla studio di nuovi antibiotici. Questa, come ho detto, attualmente è purtroppo solo una sfida scientifica".