La rivolta alla cruenta repressione di Pechino non si ferma. Sarà battaglia da qui alle Olimpiadi. Con un'agenda che prevede suicidi mediatici. E i più estremisti pensano alle bombe

Alla vigilia del 10 marzo c'era grande fibrillazione negli uffici di cinque organizzazioni non governative tibetane che hanno sede a Dharamsala, nel nord dell'India. Tenzin Tsundue, un poeta e attivista, convinto sostenitore dell'indipendenza del Paese delle Nevi dal regime di Pechino, faceva la spola tra l'una e l'altra delle spartane sedi dove si decidevano i dettagli della lunga marcia di ritorno verso il Tibet. All'uscita da uno di questi incontri, Tenzin sembrava piuttosto inquieto. Solo dopo numerose insistenze ci confessò che c'erano "contrasti sul tipo di lotta da portare avanti". Impossibile sapere di più. Ciò che si è deciso a Lhasa quel 10 marzo, anniversario dei 49 anni dalla fallita insurrezione contro l'occupazione cinese della capitale tibetana, è diventata cronaca di questi giorni.

Nonostante gli appelli alla non violenza del leader spirituale tibetano, la 'Via di Mezzo' del Dalai Lama per l'autonomia del suo Paese, contrapposta alla richiesta di completa indipendenza avanzata da molti tibetani dissidenti, è di fatto retrocessa ancora di più nell'indefinito campo dell'utopia.


Che succederà adesso, dato per scontato che le proteste non si fermeranno davanti ai carri armati e alle pesanti repressioni già in atto da parte dell'esercito cinese? Di certo è impossibile profetizzare un cambiamento radicale nell'attuale rapporto di forza tra il Davide tibetano e il Golia cinese. Tutti i portavoce e i dirigenti di Pechino hanno messo in guardia i tibetani dal valicare certi limiti, giungendo a invocare una 'guerra di popolo' contro i separatisti, che potrebbe tradursi nell'isolamento fisico di quanti non accetteranno le regole ancora più rigide di quelle odierne in termini di accesso ai posti di lavoro, alle scuole pubbliche e alle stesse istituzioni religiose 'commissariate' da veri e falsi monaci membri del partito. Nessuno di certo può azzardarsi nemmeno di sognare una soluzione come quella del referendum in Kosovo. Ma allo stesso tempo una breve indagine tra i vari movimenti indipendentisti che hanno sede a Dharamsala lascia intuire che la lotta non si fermerà dopo pochi giorni, come è accaduto in Birmania.


"Il Tibet è destinato a diventare la Palestina dell'Asia",
spiega un rappresentante del Tibetan Youth Congress, uno dei gruppi da anni impegnato sul fronte duro dell'attacco agli interessi cinesi dentro e fuori il Celeste Impero. Il loro eroe è un ex cuoco sessantenne. Si chiamava Thupten Ngodup e il 27 aprile del 1998 si diede fuoco in mezzo a uno dei gruppi che stavano effettuando uno sciopero della fame a New Delhi per attirare l'attenzione del mondo sulla causa tibetana.

"Il governo tibetano in esilio lo considerò poco più che un pazzo", ricorda un militante dello Youth Congress. E da allora le posizioni di questo gruppo, e di altri che si battono per l'indipendenza, si è allontanato, "con una certa amarezza", dice il giovane attivista, "dalla linea ufficiale del Dalai Lama e dei vertici delle istituzioni in esilio". Difficile dire, come sostengono le autorità cinesi, se davvero il movimento di Lhasa è stato 'eterodiretto' da Dharamsala. Di certo esiste nella città degli esuli un netto contrasto sulle azioni da condurre dentro al Paese delle Nevi e all'estero tra i fedelissimi del Dalai, ancorati al principio non violento e autonomista, e i movimenti devoti alla causa dell'indipendenza, del tutto contrari alla politica morbida che non ha dato nessun frutto evidente.
 
"Anche se sono buddista", dice Tenzin, "non riesco a provare la stessa compassione per tutti, cinesi inclusi, e come me tanti altri tibetani". "La compassione", spiega, "è il compito di un leader spirituale, che per non creare troppa sofferenza agli altri può anche accontentarsi di una limitata autonomia per il Tibet, che di fatto si traduce in sottomissione e sopportazione delle peggiori angherie. Ma non è così per quanti come me sono nati e cresciuti in esilio, sia coloro senza la vocazione monastica, sia per tanti monaci, privati di radici e d'identità, senza la possibilità di mettere piede nella terra che ci appartiene, cresciuti in famiglie divise dai confini senza nemmeno la prospettiva di un Muro di Berlino da smantellare".

Lo scenario è ben più inquietante di quando le azioni dei 'duri e puri' del movimento si limitavano all'esposizione degli striscioni durante le visite dei dignitari cinesi all'estero, come fece Tenzin Tsundue in più di una occasione, nel 2002 dall'alto delle Oberoi Tower di Bombay davanti alle finestre di Zhu Rongji e nel 2005 quando il premier Wen Jabao si trovava a Bangalore. Ma già un anno dopo, mentre Hu Jintao tornava a Bombay in visita d'affari, un gruppo di attivisti dello Youth Congress dimostrarono che l'ispirazione al suicidio del cuoco martire Thupten non era rimasta un caso isolato, e che il sacrificio personale era messo nel conto da un numero non limitato di giovani e meno giovani tibetani. Proprio davanti all'albergo di Hu il 24enne Nhakpa Tsering si diede alle fiamme e se la cavò con una gamba ustionata. Subito dopo a pochi chilometri di distanza altri tre giovani dello Youth Congress tentarono di lanciarsi dalla sopraelevata di Marine Drive mentre passava l'auto del presidente cinese e a salvarli furono i poliziotti della sicurezza.


Non si può spiegare senza questi precedenti la determinazione dei manifestanti di Lhasa a proseguire "da qui alle Olimpiadi" ogni possibile azione di lotta. E lo stesso sta avvenendo, nel silenzio quasi totale sul loro possibile letale sacrificio, proprio di fronte al tempio del Dalai Lama a Dharamsala, dove una trentina di monaci e laici rifiutano cibo e acqua da parecchi giorni. "È forse l'ultima occasione che abbiamo di portare il mondo dalla nostra parte", ci hanno detto numerosi attivisti.

Non vogliono anticipare che tipo di azioni hanno in mente, così come rimane top secret l'itinerario della marcia avviata da cento tibetani guidati da Tenzin Tsundue, arrestati dalla polizia dopo due giorni e subito sostituiti da altri 44 militanti delle cinque organizzazioni che l'hanno promossa.

"È già difficile sbriciolare una piccola pietra della grande muraglia della repressione cinese", ci ha detto uno dei partecipanti alla marcia, "figurarsi se anticipassimo i nostri piani".

Il pensiero corre a possibili attività terroristiche sul modello palestinese, ma tutti escludono una strategia di questo tipo. Almeno teoricamente. È un fatto che diversi commercianti cinesi e anche musulmani Hui, oltre a poliziotti e soldati, sono stati uccisi dai manifestanti nei primi giorni della rivolta. Ma l'emotività della folla esasperata è cosa ben diversa dalla pianificazione di vere e proprie stragi sul modello del terrorismo islamico. Anche perché è più probabile che i 'freedom fighters' tibetani si tolgano la vita da soli piuttosto che coinvolgere innocenti.


Il Dalai Lama nei giorni scorsi ha ricevuto una delegazione dei più risoluti tra i giovani dello Youth Congress e così ha riassunto quell'incontro: "Mi hanno detto di essere stanchi e hanno criticato la mia politica. La mia è una via più lunga, ma è la sola che porta la solidarietà del mondo. Hanno aggiunto di voler combattere con le armi. Ho ribattuto: e dove ve le procurate? Hanno risposto: in Afghanistan. E io: poi come le portate qui? Non ce la fate, né attraverso l'India né usando altri canali". Poi ha concluso: "L'uso della violenza è quasi un suicidio". Ma proprio lo spirito dell'autoimmolazione sembra aleggiare sul futuro della lotta pianificata dai tibetani da qui alle Olimpiadi. Gli stessi servizi di intelligence cinese sono pronti a fronteggiare questa eventualità e hanno già dispiegato poliziotti in borghese nei punti strategici della capitale. Lo stesso stanno facendo le autorità indiane e anche gli Stati Uniti, dove operano diverse filiali dello Youth Congress, del Gu-Chu-Sum (ex prigionieri politici), del National Democratic Party e degli Students for a Free Tibet.

Ognuna di queste organizzazioni è in contatto con gruppi e singoli in tutto il mondo, compresi artisti come Richard Gere, che ha chiesto il boicottaggio dei Giochi, e la cantante Björk, che durante un concerto a Shanghai ha gridato 'Free Tibet'. È, questa, parte di una strategia che ha precedenti illustri. Concerti pro Tibet sono stati organizzati in tutto il mondo, a partire dai Beastie Boys con l'album 'III Communication'. Per tre anni Radiohead, Smashing Pumpkins, Cibo Matto, Rage Against the Machine, De La Soul hanno attraversato il mondo con altri musicisti raccogliendo centinaia di migliaia di fans. Durante le Olimpiadi altre azioni esemplari in giro per il mondo saranno parte della campagna pro-Tibet. Ma è altrettanto certo che i militanti indipendentisti non si accontentano della solidarietà esterna, e che cercano nel loro universo idealista e mistico un cemento ideale per mostrare ai cinesi la forza di un popolo. Già negli anni '87, '88 e '89 Lhasa fu attraversata da un fremito di rivolta che non portò benefici, ma la repressione. Da qui la decisione del Dalai Lama di opporsi alla tendenza 'suicida' del suo popolo, che però resta presente.

Senza il tam tam mediatico, di bocca in bocca sono filtrate le notizie e le foto dei giovani monaci che si sono tagliati le vene o dati alle fiamme nei grandi monasteri attorno a Lhasa. Non è difficile prevedere che durante i Giochi singoli o gruppi di tibetani si immoleranno davanti alle telecamere di tutto il mondo. Un'ipotesi che spaventa le autorità cinesi più delle immagini delle distruzioni e saccheggi dei negozi trasmesse dai media di Stato per denunciare il lato 'selvaggio' dei tibetani. E per giustificare così altri lungi decenni di occupazione del Paese delle Nevi.