Disegni. Cartoline. Lettere intime. Diari di viaggi. Scritti teorici. E la confessata passione per Joséphine Baker. Un libro di inediti del grande architetto
Architetto, urbanista, scrittore, scultore, pittore. Versatile disegnatore, instancabile viaggiatore, intrepido amante. Tutto quello che volevate sapere su Le Corbusier alias Charles-Edward Jeanneret-Gris, si era cambiato il nome per creare un brand adatto al suo personaggio, è in un megalibro degno della sua mania di grandezza, della sua grafomania, della sua penna espansiva, della sua matita perennemente attaccata ai fogli dei taccuini con la spirale. 'Le Corbusier le grand' (nel mondo dal 2 luglio, introduzione di Jean-Louis Cohen, saggi di Tim Benton, Phaidon, 624 pagine, 150 euro) è una visual biography con una serie di inediti che seleziona 2 mila documenti custoditi dalla Fondation Le Corbusier di Parigi, da istituzioni private e pubbliche europee e americane. Una produzione sterminata, cento edifici, 170 progetti non costruiti e 75 di urbanistica, 400 pitture a olio, sette affreschi, 200 litografie, 40 tappezzerie, 50 sculture, 20 mobili, 50 libri, 6 mila disegni autografi e 32 mila degli studi di architettura. Una mole di materiale adatta a un visionario, voyeur chiaroveggente lo definisce Cohen, che si considerava un visionario: "Sono un asino ma che ha l'occhio. Si tratta dell'occhio di un asino che ha capacità di sensazioni. Sono un asino con l'istinto della proporzione. Sono e rimango un visivo impenitente".
Il voyeur collezionava cartoline, registri, diari, quaderni, progetti, dipinti, foto, lettere, documenti, disegni di mobili. Cose, oggetti, persone. Scriveva dove poteva, su tutto quello che trovava: taccuini, pacchetti di sigarette, biglietti del teatro. Sono 6 mila soltanto le lettere spedite agli amici. Dalla collezione di carta spuntano Pablo Picasso, Fernand Léger, Jean Prouvé e le donne che aveva amato. La moglie, Yvonne Gallis, si erano sposati nel 1930 e abitavano nell'attico che aveva progettato a Parigi in rue Nussenger-et-Coli, e due amanti, sulle quali però, si affretta a spiegare Cohen "non esistono prove": Marguerite Tjader Harris, la scrittrice e Joséphine Baker, la ballerina. La Baker è ritratta in un disegno colorato con pastelli chiari: "Joséphine è straordinariamente modesta e naturale", scriveva Le Corbusier alla madre nel 1929, "un cuore tenero come quello di un bambino di un villaggio creolo. Nemmeno un pizzico di vanità. Nulla. La naturalezza più miracolosa che tu possa immaginare".
La cronologia procede, come nei vecchi album di famiglia, dai libri dell'infanzia all'orologio da taschino con cui a 15 anni vinse un premio all'Esposizione di Arti Decorative di Torino, fino ai grandi progetti e ai grandi viaggi. Nel 1907 gli schizzi sull'architettura rinascimentale, Palazzo Vecchio e Santa Maria Novella a Firenze, Piazza del Campo a Siena. Venezia lo aveva stregato: "Je prends Venise à témoin", l'anno successivo lo aveva abbagliato Notre Dame. 'Croquis de voyage', Istanbul, i pinnacoli della Moschea blu, i disegni del Bosforo e di uno dei suoi modelli fondamentali, il Partenone. Poi Budapest e Vienna, dove era entrato in contatto con la secessione viennese, Berlino . Più tardi i piani su Mosca, Rio de Janeiro, il Plan Obus di Algeri, gli incontri con Gropius e Mies Van der Rohe. Gli occhi fermavano il mondo. Un'occhiata, un'idea, come i cinque elementi della sua architettura: Pilotis, piloni puntiformi, trampoli che penetravano nel terreno e reggevano gli edifici; pianta libera; tetti a terrazza; facciate libere; le grandi finestre a nastro che tagliavano in lunghezza. "Solo l'utente ha la parola", scriveva nella sua opera 'Le Modulor', una scala di grandezza basata sulla regola aurea del corpo umano.
Sosteneva che le misure dovevano essere usate da tutti gli architetti per costruire non solo spazi, ma anche appoggi, ripiani, accessi connessi a quelli standard del nostro corpo. È la casa replicante di se stessa, la produzione standardizzata, il modulo ripetibile all'infinito. Dai moduli i progetti: il quartiere Pessac a Bordeaux, case costruite come macchine da una catena di montaggio. Case seriali, l'Unité d'habitation a Marsiglia, un palazzo-città tirato su tra il 1947 e il '52. Un gigante di cemento lungo 165 metri e alto 56 pensato per ospitare 1.600 persone in 337 appartamenti di 23 tipi, single, coppie, famiglie, 98 metri per ogni nucleo. Tra un appartamento e l'altro, al posto dei corridoi ci sono le strade con i negozi, il tetto diventa una piazza terrazzata con alberi e piscina. Aveva descritto tutto in 'Vers l'architecture': i suoi progetti indirizzavano i comportamenti delle persone, li influenzavano, li determinavano. Non succedeva mai il contrario.
L'architetto del modernismo, il genio della rivista l''Esprit Nouveau', diventa l'architetto delle città dormitorio. Le polemiche sono ancora aperte. Altre sono scoppiate in questi giorni e riguardano la stessa possibilità di affiancare alla sua architettura edifici nuovi. Gli piacevano i grattacieli, ma li voleva cartesiani: "Al posto di quelli di Chicago e New York noi offriamo grattacieli definiti, traslucidi, scintillanti che si stagliano contro il cielo de l'Ile de France". Gli piaceva l'India, ha scritto e disegnato un carnet indiano, nel '51 ha progettato Chandigarh, la città ideale teorizzata nel 1933 nel progetto della Ville Radieuse: "La città di domani dove sarà ristabilito il rapporto uomo-natura". Nehru lo aveva chiamato con il cugino Pierre per la capitale del Punjab, una pianta di nuovo ricalcata sul corpo umano, gli edifici del governo nella testa, le strutture della produzione nelle viscere, i palazzi residenziali nel tronco, strade soltanto per automobili e soltanto per pedoni. "Il tocco finale di una città unica al mondo", scriveva a Yvonne, "costruita per dare alla gente la gioia di vivere in semplicità".
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