Ma per le strade di Dakar la fotografia appare diversa. Fuori fuoco. I colori accesi delle nuove tinteggiature, le vetrate infinite e i materiali da costruzione moderni scompaiono, lasciando spazio a un'immensa umanità in movimento. Giovani uomini affollano i semafori, si affacciano ai finestrini dei Suv con le loro occasioni da pochi franchi: ricariche telefoniche, giocattoli, lampadine, chincaglierie di ogni tipo.
Dakar vuole assomigliare a Dubai. A chi atterra dal mare, promette uno skyline a 5 stelle. A chi vive la città offre affitti che aumentano in maniera sconsiderata, assieme al prezzo del cibo e del carburante. Persino la classe media della capitale vive sempre più lontana dal nuovo benessere. Poveri e ceti medi si sono riavvicinati, anche geograficamente: stretti in periferie difficili e maleodoranti. I blackout sono ricorrenti, la benzina troppo cara per accendere il generatore.
Dietro la nuova modernità, c'è scontento. Il Senegal, considerato da sempre un Paese stabile, sembra perso in un intreccio di problemi economici, sociali e politici. La rabbia si percepisce sempre di più. Soffoca, fondendosi con l'inquinamento e l'umidità. Ragazzi avvicinano i turisti, mescolano il francese con lo spagnolo e l'italiano imparato da parenti e amici emigrati.
Raccontano sogni di gloria e nessuna paura di rimpatrio coatto. Per racimolare i soldi per un viaggio verso l'Europa, le nuove generazioni senegalesi vendono finti Rolex a poche decine di dollari. La crisi ha raggiunto l'apice negli ultimi mesi. La conferenza dei Paesi islamici di marzo, con i sui fasti per pochi vip, è stata già dimenticata. Ha lasciato il posto alle manifestazioni di gente affamata. Le cariche della polizia hanno messo il silenziatore al malcontento popolare e il governo ha respirato. Sino a giugno, quando una coalizione di partiti e associazioni della società civile hanno indetto una conferenza nazionale per analizzare i trend del Paese e reindirizzare politica ed economia. Sentendosi minacciato da un gruppo di intellettuali, il partito al potere ha deciso di non partecipare ai lavori.
All'interno dell'ampia comunità internazionale che vive in Senegal c'è preoccupazione. Per l'ex colonia francese, da sempre considerata una delle poche aree di stabilità e democrazia dell'intera regione, c'è il rischio di una destabilizzazione che possa condurre a scontri. L'esempio delle violenze in Kenya di gennaio viene spesso ricordato.
Seduti ai tavolini del bar del centro culturale francese, un gruppo di amici beve e scuote la testa. Sono professori universitari, sindacalisti, uomini di cultura. Mamadou Awadi aveva appoggiato con entusiasmo il presidente Wade. Da allora molto è cambiato e l'ottimismo è sparito. Nel partito del presidente le cose non vanno meglio. Molti accusano l'ottuagenario Wade di tramare per una successione nepotistica molto africana. Suo figlio Karim viene indicato come erede per guidare il Paese. Un passaggio di consegne poco senegalese che sarebbe dovuto iniziare con la 'rinascita' della capitale.
Il presidente ha incaricato suo figlio, sino a quel momento banchiere a Londra, di farsi carico del restyling della città in preparazione del Summit islamico della scorsa primavera. L'idea era ambiziosa: passare dal vecchio fascino della Dakar coloniale a una città moderna, tecnologica e commerciale.
All'arrivo dei dignitari musulmani, le strade erano quasi finite. Gli alberghi e le altre infrastrutture no. Qualcuno ha espresso dubbi sull'operato del rampollo di casa Wade. Chi ha osato, è riuscito solo a ricevere minacce e perdere la poltrona. Queste tensioni sottotraccia non hanno giovato al Senegal. Per anni beneficiario di aiuti di ogni genere da parte della comunità internazionale, oggi l'operato del governo è criticato persino dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale: cattiva gestione delle spese pubbliche e disastrose politiche sul prezzo degli alimenti.
Corruzione e mancanza di attenzione per i bisogni dei cittadini minano le prospettive del Paese. A dimostrarlo, bastano gli indicatori di sviluppo economico del 2006: mentre l'Africa andava al galoppo, il Senegal è rimasto fermo a un misero più 2 per cento.
Nelle case il sudore si mescola alla disperazione. La disoccupazione cresce. Lavori regolari non se ne trovano; a vendere cianfrusaglie per strada sono in troppi. Per i giovani, lo studio non è un'alternativa. L'avvenire è limitato a una prospettiva: emigrare. Abdoulaye Kane, del Centro di studi africani dell'Università della Florida, sostiene che l'emigrazione, soprattutto nelle periferie e nelle campagne, è vista come unica possibilità di ascesa sociale. Migrare è un migliore investimento economico per le famiglie. Produce maggior potere d'acquisto. "La realtà", conclude Kane, "dà ragione al pensiero comune. Così le traversate continuano numerose".
Il malessere sociale si è rivolto contro il presidente Wade e la sua ricetta politica di neo-liberalismo e ottimismo parolaio. Uomini vicini alla presidenza difendono l'operato del governo, raccontano di grossi investimenti nei settori della sanità, dell'istruzione, della lotta alla povertà.
Recentemente, dicono, Wade ha anche annunciato un programma per rafforzare la produzione alimentare senegalese, da ultimarsi entro il 2015. Tra i banchi dei mercati, però, la situazione non migliora. Il prezzo della frutta raddoppia in pochi giorni. La classe media si sente in corsa verso il lastrico. El Hadj Fall, impiegato di banca, racconta la sua rabbia, trattenendo le lacrime. Grida: "Il presidente ha pensato solo al suo potere e ad arricchire la sua famiglia". Parla di manifestare, lui che non ci aveva mai pensato. I soldi per ricostruire la capitale andavano investiti diversamente.
Ne è certo anche Omar Ba, che ogni mattina stende un telo per terra e vende Adidas fasulle. Non ha mezzi di trasporto, racconta, e comunque le nuove strade non arrivano al ghetto in cui vive. Si chiede, a chi giova questa modernità. Poco oltre, scendendo verso il porto, il muro è tempestato di murales. "Abbiamo fame", si legge sulla superficie scrostata accanto al volto rassicurante del presidente Wade.