Nei varchi di confine la vita bolliva come acqua in una pentola coperta. Ora sono luoghi vuoti. La mia Konieczna è quasi morta. Ardono solo le lampadine nei negozietti di alcolici che nessuno più compra

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Il mio varco di frontiera in Slovacchia è defunto. La neve ha ricoperto il valico. Gli edifici abbandonati affondano nei cumuli di neve. Dopo il tramonto tutto è scuro, minaccioso, irreale. Viene da pensare a un castello dei Carpazi abitato da spiriti, dove un Dracula slavo vaghi fra stanze gelide.

Un po' di luce arriva dalla parte slovacca. Sono due negozietti che vendono alcolici e resistono eroicamente fra il vento e le tempeste di neve. Ma non c'è quasi più nessuno che ci vada. Le venditrici coi maglioni pesanti e i pellicciotti di montone muoiono di noia fra bottiglie di vino, liquori, brandy e vodke. Sbadigliano, raschiano il ghiaccio dai vetri delle finestre e aspettano i clienti. Ma non si ferma quasi nessuno.

Per anni l'alcol in Slovacchia era più a buon mercato che in Polonia e i negozietti dall'alba al tramonto rimbombavano di voci. D'estate bisognava fare lunghe file. E ora forse io sono il solo a venirci, per comprare qualche bottiglia di 'frankovka' slovacca, un vino rosso leggero, dal sottogusto acre. Poi non riesco a trattenermi e mi metto a girare per gli angoli del passaggio di frontiera, a cui prima era impossibile l'accesso. Vado ad annusare là dove prima potevano entrare solo polizia e doganieri.

C'è qualcosa di straordinario nei luoghi abbandonati dal potere. Diventano improvvisamente inservibili, derelitti. Tutto questo complesso doveva governare sull'intera zona di confine, era una dimostrazione del potere dello Stato; ora vi soffia il vento che accumula dune di neve là dove parcheggiavano le Land Rover dei finanzieri. In realtà, invece di Dracula, si possono immaginare le anime in pena di sergenti e colonnelli marescialli disoccupati incedere nella nebbia invernale, fra pianure vitree.

Sembra che il potere, allontanandosi, lasci alle sue spalle solo il vuoto. I luoghi che occupava immediatamente muoiono. Quando la frontiera qui era attiva ed ermetica la vita pulsava. Si intrecciavano qui gli affari di coloro che controllavano e di coloro che tentavano di sottrarsi al controllo. I doganieri e i contrabbandieri. I cani alla ricerca di semtex e di narcotici.

Il rimestare nei bagagli. Il fremito al cuore: troveranno o no le bottiglie di vino ungherese in soprappiù? La curiosità: stavolta saranno simpatici o sgarbati? E la tensione continua fra le divise che bramano l'ordine e la selezione, e gli abiti civili che impersonavano il desiderio di anarchia e di frontiere vaghe ed opache. Si può dire che la vita qui avesse una temperatura e una pressione più alta proprio perché si tentava di limitarla, di darle forma, di ritagliarla. Bolliva, come acqua in una pentola coperta.

Così dunque la mia Konieczna è quasi morta. Ardono solo le lampadine nei negozietti di alcolici che nessuno più compra. Lo stesso avviene a Barwinek, qualche decina di chilometri più a est. È un varco enorme, e il suo stato di abbandono può far venire un attacco di malinconia. Ettari ed ettari di cemento, di latta, di asfalto, di vetri ricoperti di polvere. Nel labirinto di parcheggi, passaggi, portoni e hangar ulula il vuoto. Qua e là qualche resto in agonia: un negozio, un ufficio in liquidazione, tutto è immobile. All'intorno si stende il bosco che ricopre il più basso valico dei Carpazi, il valico di Dukla.

Qui durante le due guerre mondiali si scontrarono fra loro grandi eserciti, la gente continua a rinvenire ossa umane e armi arrugginite. Ma ogni anno questi resti sprofondano sempre più nella terra, su di loro cresce un bosco sempre più vecchio e folto. Mi sembra che questo dovrebbe essere anche il destino degli antichi varchi di frontiera. Dovrebbe impadronirsene la natura.

Dovrebbe crescervi sopra il bosco, gli uccelli vi dovrebbero costruire i loro nidi, le volpi scavarvi le tane. Il paesaggio dovrebbe rimarginarsi come una ferita, lasciando emergere solo la traccia della strada. È una visione ovviamente del tutto utopica o estetizzante, ma si accompagna al timore che un giorno i gendarmi possano tornare. Ci penso sempre, ogni volta che mi trovo in questi luoghi moribondi, disperatamente deserti. Creati per controllare, non servono a null'altro.

È possibile che il loro stesso esistere, che la loro presenza costante nel paesaggio abbiano un significato simbolico: ci fanno cenno di non aver troppa fiducia nel futuro. Il futuro che ci aspettiamo e che desideriamo può semplicemente ripensarci e tornare sui suoi passi, per accomodarsi di nuovo nei gelidi edifici di Konieczna e di Barwinek.