Di colpo siamo stati gettati in un mondo in cui il problema maggiore è scegliere cosa comprare. Oggi si trova tutto a poco prezzo. Ma la qualità è quasi sempre scadente

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Il mio vicino di casa, da quando ricordo, ogni martedì mette in moto la sua vecchia automobile e va nella città vicina, distante 25 chilometri. È una cittadina di media grandezza, di circa 30 mila abitanti, ai piedi dei Carpazi, che da sempre costituisce un centro commerciale e amministrativo per i paesi confinanti. Il martedì, sulla grande piazza lungo il fiume, è giorno di mercato.

Era così dieci, venti, cinquanta e cento anni fa. È proprio lì che è diretto il mio vicino di casa. Lo stesso facevano suo padre e certamente suo nonno. Ricordo che, ancora una decina di anni fa, in quel mercato si vendevano animali. Il martedì si potevano trovare maialini, vitelli, galline e oche. Nei sacchi si trovavano granaglie e foraggi. Si vendevano finimenti da cavallo, semplici attrezzi agricoli e oggetti di uso quotidiano indispensabili in ogni azienda agricola: rastrelli, secchi, vanghe, scuri, forconi e così via. Una volta a settimana da quel luogo nel centro della città si innalzava il profumo della campagna.

Ora di tutto ciò non è rimasto nulla. La piazza del mercato odora di stoffe cinesi, che emanano al sole odore di gomma e di plastica. I frequentatori, come il mio vicino, sono rimasti gli stessi, ma non c’è quasi più nulla che possa servire ai lavori agricoli. Se si vuole acquistare un animale, si può trovare un cucciolo di chissà che razza raffinata, che crescendo diventerà un comunissimo bastardino. Sulle bancarelle invece si trova una quantità sconfinata di abiti e di calzature. Centinaia di stili e di colori.

Giacche da uomo, vestiti da donna, jeans, abiti da sposa, cappotti, biancheria intima, ogni tipo di vestito utile a un essere umano in ogni occasione, dal battesimo al funerale. E tutto costa poco. Mai prima era esistita merce tanto a buon mercato, tanto svariata - e ovviamente tanto scadente. Cinquanta centesimi per un paio di calzini è un prezzo che si avvicina allo zero. Scarpe per tre euro. Un completo da uomo per 30. E gli acquirenti sono persone che ricordano ancora i tempi in cui l’acquisto di un vestito o di un paio di scarpe costituiva uno sforzo finanziario molto serio. Ricordano addirittura i tempi quando d’estate si girava semplicemente scalzi. E dunque degli animali non è rimasta traccia. Non è rimasto neanche molto delle merci legate al lavoro, alla produzione, alla fabbricazione. Al posto c’è un banco con spezie di tutto il mondo. E un altro dove si vendono a due euro profumi dai nomi che ricordano stranamente marche celebri.

Oppure un banco con copie di armi da fuoco. Poi numerosi banchetti con bigiotteria di latta dorata o argentata e vetrini multicolori; un tempo, i viaggiatori che si recavano in terre remote e sconosciute certamente si portavano appresso orpelli simili. Oppure bancarelle con musica a metà strada fra la disco e il folk. In mezzo a questa infinita ricchezza di forme e di colori passeggiano folle di gente che fino a poco tempo fa vivevano in un mondo di disavanzo cronico. E ora, di colpo, senza preannuncio, sono stati gettati in un mondo in cui il problema maggiore è scegliere fra una mercanzia e l’altra. I loro genitori o forse loro stessi ricordano ancora i tempi in cui la fame era un’esperienza comune e quotidiana. Ora devono confrontarsi con l’esperienza della sovrabbondanza e dell’accesso illimitato a ogni bene.

Quando passeggio così per il mio mercato non riesco a evitare l’impressione che ci stiamo veramente dirigendo verso un’epoca nella quale riceveremo le cose gratuitamente. L’utopia comunista si realizzerà in modo perverso e postcapitalistico. La plebe sempre all’opra china verrà finalmente abbigliata, cibata e condotta verso il paese dell’abbondanza, dove regnano la paccottiglia cinese, la stoffa sintetica, la bigiotteria di plastica. Mi piace il mio mercato lungo il fiume. È un luogo perfetto per meditare su come il mondo si va trasformando.

Ancora una decina di anni fa era un simbolo del localismo, dell’autosufficienza, quasi, addirittura, dell’autarchia. Oggi, come un tappeto volante, trasporta folle di gente dritto nel postmoderno. Massicce donne di campagna si misurano décolleté dorati con tacchi di dieci centimetri. Ragazzi rasati a zero che parlano nel dialetto locale prendono in mano copie di Uzi israeliani e ripetono gesti spiati al cinema. Su tutta la piazza del mercato si innalza un effluvio di profumi contraffatti e di spezie esotiche. Come su tutti i mercati del mondo.