Secondo New York Times, il ventottenne David Benjamin Sherry è l'artista che ha saputo rivoluzionare il rapporto natura-corpo umano in campo fotografico. In rete, alcuni blogger, non la pensano allo stesso modo: "E' soltanto uno a cui piace mettere in mostra le sue perversioni e far credere di aver visto gli UFO". Il suo nuovo show si chiama "Birth in Futurverse" (fino al 20 febbraio alla Schlechtriem Brothers Gallery di Berlino): tra colori armonici e paesaggi epidermici indecifrabili, Sherry distende un campionario di emozioni e discute con noi della sua prima passione: la moda.
Signor Sherry, dove ha studiato fotografia? Ha un'icona o un modello d'ispirazione?
Per quattro anni ho studiato alla Scuola di Design a Rhode Island, dove ho ottenuto il diploma di laurea in Fotografia, poi mi sono specializzato alla Yale University con due anni di corso aggiuntivi. Credo di avere molte fonti d'ispirazione. Cambiano col vento e toccano diverse forme d'arte, ma tutte riconducono al mio pensiero estetico. Oggi, la mia sensibilità può dirsi più vicina al gruppo musicale rock anglo-americano Fleetwood Mac e ai film di Derek Jarmon. Prima, invece, vagolava tra Bob Dylan e Werner Herzog. A guidarmi negli anni sono stati soprattutto il filmmaker Alejandro Jodorowsky, che ha avuto un grande impatto sulla mia formazione, e negli ultimi tempi anche David Bowie e Allen Ginsberg.
Come è stato il suo percorso di crescita nella prestigiosa Università di Yale?
Yale ha segnato profondamente la mia vita artistica: in quelle aule, ho conosciuto meglio me stesso, e ho avuto modo e tempo di sperimentare la fotografia al fine di raggiungere una visione personale. Il programma è stato intensivo, i professori e gli altri studenti sembravano continuamente spinti verso la ricerca, così hanno finito per motivare anche me come mai nessuno prima era riuscito a fare. Ricordo che dopo aver analizzato il mio lavoro di fine corso, gli insegnanti si sono congratulati con me per "essere andato contro tendenza". Mi sono sentito riconosciuto. Un'esperienza, quella di Yale, che conserverò nel cuore con un sorriso. La maggior parte degli studenti si occupava di film e stampe digitali, questo mi ha dato lo spazio, la solitudine e il tempo necessari per sperimentare in maniera massiccia la camera oscura. Ho esplorato ogni colore, ogni forma di stampa e trascorso infinite ore ed intere notti da solo con la musica, scattando fotografie.
Cosa può rivelare del suo "incontro" con gli UFO?
Posso fare un breve riassunto di quello che per me è stato vivere l'incontro con gli UFO, ma non mi soffermerò sui dettagli: ho notato che, ogni volta che ne parlo, si tende a sminuire un evento molto intimo, che ha stravolto la mia esistenza. Non appena si parla di UFO, la gente prende a denigrarti pensando si tratti solo di finzione, e questo lo condivido, è giusto, è accettabile, ma quello che è accaduto a me va ben oltre e occorre guardarlo da una prospettiva differente. Stavo lavorando e facendo foto lungo il Pacific Northwest, circa due anni fa, e avevo deciso di terminare il mio viaggio all'UFO Sanctuary di Washington State, dove vive un amico.
Ero molto curioso di entrare nel santuario. Visitarlo è stato un'esperienza paurosa ma nello stesso tempo illuminante. Mentre mi trovavo lì, sono stato "contattato", come affermano gli scienziati del santuario, o meglio sono stato visitato da una luce proveniente da un'altra dimensione. L'esperienza mi ha scosso e atrofizzato. Da allòra le mie fotografie sono cambiate: adesso, mentre cammino o lavoro, percepisco di aver subìto un "risveglio", la mia anima ha preso consapevolezza e quella luce che mi ha attraversato è ancora parte di me, mi ha trasmesso una nuova energia che, ad oggi, condiziona chiaramente la mia esistenza. Finalmente sono in grado di concepire l'idea che davvero ci sia qualcosa di più grande dell'umano nell'universo.
Può descrivere la sua mostra, "Birth in Futurverse"?
Il titolo deriva da una delle fotografie esposte nello show: porta lo stesso nome, "Birth in Futurverse". L'esibizione è pervasa dalla mia nudità e dal mio essere appeso alle pareti, in genere multicolorate e a pois. Anche il corpo è colorato come lo sono i muri: in questo modo può sembrare che io nasca ed emerga da quella vasca di cromi, da quelle arti frattali in continuo movimento. Amo il concetto di "rinascita"e di recupero di sogni ed incubi. Il mio lavoro è prevalentemente questo. E' un "sentire il mondo": la fotografia mi parla del passato e del futuro - in particolare mi descrive il significato del vivere presente. "Birth in Futurverse" è una mostra che narra della mia esplorazione, dentro di me, e del mio ritorno sulla Terra in veste di testimone di alcune visioni provenienti dal passato e dal futuro, dal presente e dalla illuminazione che ne consegue quando si trascorre molto tempo in solitudine. Ad accrescere la sensibilità è la mia attrazione per la poesia visuale, la musica e la performance. La maggior parte degli auto-ritratti esposti spiano i miei desideri, le paure e le frustrazioni, e credo che possano comunicare queste sensazioni a tutti i fruitori, poiché ogni essere umano condivide certe emozioni, anche se spesso tende a nasconderle o rimuoverle. Questo è il dovere di un artista: tirar fuori dal cilindro paure scomode, desideri e frustrazioni universali.
Che cosa è "reale", secondo lei?
Recentemente, ho scoperto che non mi piace pensare ci sia qualcosa di reale. Credo piuttosto che tutto quello che viviamo sia parte di un sogno e che le decisioni prese nel quotidiano siano solo istintive. E' come mangiare o dormire, fare gesti meccanici e muovere il corpo, parlare e lavorare attraverso lo spazio. Tutto ciò è stato chiamato "vita" eppure io mi sento di vivere nel mio mondo da solo, per gran parte del tempo. Non credo esista qualcosa di necessariamente reale. "Reale" è solo un termine che noi utilizziamo per generalizzare l'idea della nostra esistenza, stiamo a questo mondo fisicamente e trovo sia alquanto noioso e deprimente questo approccio alla vita. Forse è tutta colpa della gente che vive nel comfort, sono loro che hanno istituito la parola "realtà". Ecco, sì, il comfort è il male del secolo.
Come considera la fusione tra il fashion e la fotografia?
Una volta ne ho parlato con uno dei miei professori, Phillip Lorca di-Cortia. Discutevamo proprio su questa fusione e lui disse "fare arte consiste nel creare problemi, fare moda significa risolverli". Condivido appieno. Quando lavoro con l'arte, sento di emarginarmi dal resto del mondo, è un'esperienza interiore. Se invece mi chiedono di occuparmi di pubblicità, allora si lavora in gruppo, c'è un team e ci si concentra sul lato epidermico dell'arte stessa. Fare in modo che le persone appaiano bene e parlino una lingua universalmente compresa, diventa l'obiettivo primario. Io ho avuto la fortuna di poter scegliere lavori pubblicitari di un certo interesse. Adoro mettermi al servizio di un modello o di una modella e mi piace essere messo alla prova da un cliente, un magazine o una celebrità specifica. In qualità di "image maker" mi sento responsabile dello sviluppo dell'arte futura. È un alto dovere portare ad un livello successivo il mio lavoro. Tuttavia, quello che faccio, lo faccio per me, per esorcizzare i miei demoni, per osservare lati differenti e catartici, affinché un giorno anche gli altri possano esserne abbagliati.