Da sempre terra fertile per il rugby e i rugbisti, il Veneto riscopre i pacchetti di mischia anche nella finanza. Da Verona a Treviso passando per Vicenza, banche e fondazioni mettono in gioco come mai prima d'ora le risorse miliardarie custodite nei loro forzieri. Obiettivo: contare di più negli snodi decisivi del capitalismo nazionale. Le Generali, in primis, e poi Mediobanca e Unicredit. Alchimie finanziarie? Mica tanto. Qui conta la politica. E le parole d'ordine, questa volta, le detta la Lega, uscita trionfante dalle ultime elezioni amministrative. Così, se Umberto Bossi le spara grosse reclamando maggiore spazio, cioè più poltrone al vertice degli istituti di credito, è proprio nel Veneto del neoeletto governatore leghista Luca Zaia che il verbo del gran capo lumbard ha le maggiori probabilità di essere tradotto in pratica.
La Regione in cifre
Per farsi un'idea dei toni espliciti del nuovo che avanza basta fare due chiacchere con il sindaco di Verona, Flavio Tosi, uno che è in sella ormai da qualche anno. "Sia chiaro: non mi frega niente di nominare un mio amico", dice Tosi a 'L'espresso': "A me interessa che quando la Fondazione deve destinare i suoi soldi al territorio, per un'opera pubblica, per un'attività sociale, ci sia un potere determinante degli enti locali". Paolo Biasi, il presidente della Fondazione Cariverona, in scadenza a ottobre, è avvisato: se vuol salvare la poltrona dovrà abituarsi ad avere le briglia più strette sul collo.
Messaggio chiaro, chiarissimo. Ma, d'altra parte, non è sempre necessario alzare la voce. A volte un semplice suggerimento riesce a indicare la direzione di marcia preferita dai politici al comando. Zaia, per dire, ha rilanciato un'idea che qualche anno fa frullava in testa anche al suo predecessore, Giancarlo Galan. Ovvero la fusione tra due popolari con forti ambizioni di crescita come Veneto Banca, con base a Montebelluna, nel trevigiano, e la Popolare di Vicenza. Nascerebbe l'istituto di riferimento regionale, al quinto o al sesto posto nella graduatoria nazionale, con più di mille filiali sparse nella Penisola e mezzi amministrati per oltre 100 miliardi. La strada verso l'ipotetica fusione sembra però tutta in salita, se non altro perché i capi delle due banche, Gianni Zonin per Vicenza e Vincenzo Consoli per Montebelluna, appaiono ben decisi a conservare intatto il potere di cui ognuno può disporre in casa propria.
Allora, almeno nel breve periodo, forse è meglio concentrarsi su obiettivi altrettanto ambiziosi, ma più facilmente raggiungibili. E infatti i veneti contano, eccome, anche nella partita che si gioca in questi giorni nel board delle Generali. Chiusa l'era di Antoine Bernheim, l'amministratore delegato Giovanni Perissinotto deve fare i conti con un peso massimo come il nuovo presidente Cesare Geronzi. Al di là delle questioni formali sull'attribuzione delle principali deleghe di gestione, la posta in palio è il potere reale sul forziere più ricco della finanza nazionale. Un obiettivo troppo importante perché Geronzi non sia tentato di dar fondo a tutte le sue enormi risorse personali in termini di esperienza e relazioni pur di assicurarsi il bastone del comando. Con buona pace, temono i suoi avversari, dei ruoli e delle garanzie assegnati sulla carta tra i componenti del consiglio di amministrazione.
Perissinotto sembra destinato a giocare in difesa, ma dalla sua può vantare una rete di alleanze che ruota attorno a banche e istituzioni radicate in Veneto. La mossa a sorpresa della finanziaria Ferak di Vicenza, che a fine marzo ha unito le forze con la Fondazione Cassa di Torino per comprare il 2,26 per cento di Generali messo in vendita da Unicredit, è il segnale chiaro che lo sbarco di Geronzi a Trieste ha innescato la reazione di alcuni grandi soci della compagnia considerati più vicini all'amministratore delegato. Ferak, che già possedeva l'1,7 per cento del gruppo assicurativo, è una sorta di microcosmo dove si incrociano gran parte dei protagonisti della nuova finanza rampante del Nord-Est. I soci di maggior peso sono due holding come la Finint di Andrea De Vido ed Enrico Marchi insieme alla vicentina Palladio guidata da Roberto Meneguzzo. La coppia De Vido-Marchi forma insieme a Perissinotto un asse di potere ben collaudato nel tempo. Non solo le Generali controllano una quota del 10 per cento di Finint, ma ne hanno anche finanziato le attività, sottoscrivendo un prestito obbligazionario da 50 milioni. E nel novembre del 2006 è stata proprio la Finint a pilotare, come consulente, la quotazione in Borsa di Banca Generali, di cui lo stesso De Vido è consigliere.

A Verona, quando si parla di denari da spendere, i veri poteri sono due. Il primo è il sindaco Tosi, 41 anni, che governa un budget da oltre 400 milioni di euro l'anno. L'altro è Paolo Biasi, un industriale di 72 anni che guida la Fondazione ormai dal 1993. Con i dividendi che incassa da Unicredit e dalle altre partecipazioni, la Fondazione finanzia una miriade di attività, nel campo sociale, nell'arte, nel volontariato, nell'istruzione. Nell'ultimo quinquennio ha erogato 637 milioni di euro, la metà in città, il resto nelle altre province nelle quali storicamente opera (Vicenza, Belluno, Mantova e Ancona). Una somma enorme, che alla politica ha sempre fatto gola ma che, con i tagli imposti dal governo agli enti locali, è più che mai sotto tiro.
Non che gli scambi fra Tosi e Biasi non siano stati finora intensi. Dal Comune la Fondazione, che ha diversi progetti potenzialmente in grado di dare nuova linfa al turismo cittadino (come la risistemazione e trasformazione in un centro espositivo della cupola anni Trenta dei Magazzini Generali, con un progetto affidato all'architetto svizzero Mario Bocca), ha acquistato per 11 milioni di euro la fortezza austriaca di Castel San Pietro e a giorni dovrebbe rilevare, per altri 33 milioni, la Galleria di arte moderna di Palazzo Forti. Il flusso di risorse, talvolta, ha funzionato anche in senso contrario. Dalla Fondazione e da altre due istitutizioni finanziare cittadine (il Banco Popolare e la Cattolica di Assicurazioni) di recente Tosi ha infatti deciso di comprare per 39 milioni i terreni dove progetta di allargare la Fiera cittadina.
Resta però il fatto che le finanze pubbliche, in Regione e in città, sono all'asciutto e che poter incidere sulle scelte della Fondazione rappresenta per la Lega al potere una tentazione irrefrenabile. Ecco perché è già una questione che scotta la scadenza del mandato di Biasi e di altri 25 consiglieri (su 32), prevista a ottobre. In particolare termineranno l'incarico i quattro rappresentanti veronesi che erano stati indicati dalla precedente giunta di centrosinistra e così Tosi potrà procedere alla loro sostituzione. Il pacchetto di nomine in quota leghista, però, è ancora più ampio, visto che altri consiglieri arrivano da svariati enti locali veneti dove il partito di Umberto Bossi è al comando.
L'assedio alla Fondazione, che occupa un sobrio ma elegante palazzo ottocentesco dietro Piazza delle Erbe, dove già nel cortile si possono ammirare alcuni pezzi di una collezione d'arte che ospita nomi importanti, da Balla a Manzù, è partito subito dopo le elezioni regionali. Per capire quanto profondamente gli assetti della Fondazione siano in discussione bisogna però andare nell'altro centro di potere veronese, a Palazzo Barbieri, l'antica sede della guardia austriaca che sorge proprio accanto all'Arena.
"I miei rapporti con l'ingegner Biasi sono ottimi: quando abbiamo un problema ci si trova la mattina presto e lo si risolve", dice Tosi. Più che di divergenze personali, il sindaco ne fa una questione di sostanza. E dice di volere più voce in capitolo. Sostiene che i problemi sono "l'autoreferenzialità della fondazione" e la "parcellizzazione" delle nomine dei consiglieri fra diversi enti locali e istituzioni, come le camere di commercio, le università, la chiesa, le Asl e la sovrintendenza alle Belle Arti: "Sembra un meccanismo fatto apposta per impedire al territorio di avere un peso determinante nelle decisioni", osserva Tosi.
In realtà, le Fondazioni bancarie sono state costruite in questo modo per tentare di perseguire due obiettivi: il primo era spartire le loro risorse finanziarie assecondando l'intera società civile, non soltanto i partiti; il secondo era invece tener fuori la politica dalla stanza dei bottoni delle banche.
Sul primo punto Tosi rivendica la legittimazione che gli arriva dal voto: "Sono stato eletto dai cittadini e li rappresento. Chi siede all'interno del consiglio non so se difenda un interesse diffuso come fa il sindaco", dice. Sulla questione del controllo delle banche, taglia corto: "A me chi sia a gestire la banca non interessa niente e neppure se la banca si stacca dalla Fondazione", sostiene. Allo stesso tempo, però, non rinuncia a mettere sotto tiro il nuovo responsabile per le attività italiane di Unicredit, Gabriele Piccini, una scelta accolta con attestati di soddisfazione anche dal collega di partito Zaia: "A me interessa che abbia poteri effettivi, che non sia un passacarte. Se un'azienda ha bisogno di un finanziamento, se è seria ovviamente, mica se sono dei lazzaroni, deve poter andare in banca e ottenere una risposta senza aspettare che sia Milano a decidere".
Queste le promesse di oggi, quando la partita delle nomine è ancora da giocare. Cosa farà però la Fondazione Cariverona nell'era leghista, e quali saranno gli equilibri che il futuro vertice vorrà affermare nella gestione di Unicredit si vedrà soltanto nel tempo.
Un altro esempio dello spazio che sembra volersi prendere la Lega viene dal suggerimento arrivato da Zaia per un'unione fra Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Chi conosce da vicino i due istituti la ritiene una strada quasi impossibile da percorrere. Le due popolari sono da tempo guidate con autorità indiscussa da Vincenzo Consoli e Gianni Zonin, che vengono raccontati come restii a imbarcarsi in una fusione che, quanto meno, li costringerebbe a condividere il comando. In entrambi gli istituti conta tantissimo il voto dei dipendenti azionisti, che hanno finora arginato qualsiasi tentativo di mettere in crisi la leadership dei due banchieri.
La proposta del neo-presidente potrebbe dunque sembrare un'uscita priva di fondamento. Tuttavia le speculazioni non mancano. L'ipotesi di un matrimonio per creare una grande popolare veneta alcuni anni fa era già stata ventilata dal predecessore di Zaia, Galan, quando la Vicenza era molto più grande di Veneto Banca, protagonista di recente di una crescita a tappe forzate. L'attuale ministro dell'Agricoltura vanta ottimi rapporti con Zonin, che lo invita spesso a caccia nelle sue tenute e lo ospita al tavolo d'onore nella cena annuale organizzata nella sua casa di Gambellara, in apertura del Vinitaly.
L'aspetto curioso è che del matrimonio che non si fece allora, quando Vicenza avrebbe dominato, si torni a parlare oggi, quando Veneto Banca ha ridotto lo svantaggio. Per andare in porto, però, l'operazione avrebbe bisogno di uno Zonin in difficoltà con la sua assemblea. Un'ipotesi che qualcuno spera possa rendersi praticabile nel caso di condanna nel processo sulla scalata alla Bnl da parte dell'Unipol, che lo ha visto rinviato a giudizio assieme a numerosi altri banchieri. Fanta-finanza, almeno per ora.